salvatore mongiardo foto 2015L’Università delle Generazioni e CostaJonicaWeb Vi invitano a leggere la terza puntata (fino alla pagina 19) del libro “VITA UNIVERSALE” che il filosofo calabrese Salvatore Mongiardo sta scrivendo man mano (“work in progress”) a Soverato (Catanzaro). Buona lettura!

La SuperReligione dell’EROS. Oltre il sesso, la politica e le religioni per salvarel’Umanità e il Pianeta.

 1. Verso l’India

 L’aereo degli Emirates si alzò in volo da Milano Malpensa,sbucò fuori dalla nebbiae un sole accecante entrò dai finestrini. Erano i primi di gennaio 2014 e assieme all’amica Ursula partivo per una lunga visita nel Sud dell’India.Facemmo scalo a Dubai ele hostess si rimisero il grazioso cappellino col velo simbolico prima dell’atterraggio al lussuoso aeroporto.

Visitammo Dubai con i suoi infiniti grattacieli, alberghi, negozi, metrò, ville, strade, porto: tutto nuovo, fiammante,gigantesco. Lo sceicco Mohammed voleva lanciare Dubai come luogo di attrazione mondiale per il turismo di lussospendendo cifre inimmaginabili. Di sviluppi immobiliari mi ero occupato a lungo professionalmente, e perciò cercavo di capire il meccanismo finanziario e organizzativoche aveva prodotto uno sviluppo così spettacolare.

Un giorno, vicino alla Torre degli Arabi chiamata La Vela, mi misi a parlare con giovani indiani che lavoravano come operai nelle costruzioni. Mi informai su come e dove vivevano e quali rapporti intrattenevano con i cittadini di Dubai.Guadagnavano circa cinquecento euro al mese, dormivano in quattro o cinque in una stanza, risparmiavano su tutto e riuscivano anche a mandare soldi ai parenti. Peròcon gli arabi non avevano frequentazione perché questi vivevano lontanodalla cittàin quartieri loro riservati. I lavoratori stranieri, giovani afgani pakistani indiani che costituivano la maggioranza della popolazione, dovevano stare per conto loro.

Quella conversazione mi riportò a una storia che conoscevo bene, quella della Costa Smeralda in Sardegna, dove lavorai dieci anni come direttore marketing per il principe Karim Aga Khan. Quando il principe mi assunse,mi sembrò di toccare il cielo con un dito non solo per l’incarico manageriale prestigioso, ma soprattutto perché quella posizione mi permetteva di vivere in un posto nuovo, libero, senza tutte le complicazioni delle grandi città o le soffocanti costrizioni della Calabria da dove provenivo. Le città in cui ero vissuto: Parigi, Fontainebleau, Hannover, Heidelberg, Monaco di Baviera, Roma, mi piacevano per la libertà e le possibilità che offrivano, ma alla fine era concitatee impersonali. Io ero alla ricerca di un ventre caldo, un posto dove vivere tra gente che ti vuole bene.

Quando lasciai il lavoro della Procter&Gamble di Roma per Porto Cervo, portaicon me i libri che ritenevopiù adatti allanuova avventura: I Dialoghi di Platone, L’Utopia di Moro, La Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone… Nel consegnarmeli il libraio mi disse:

-A dottò, ma perché non pensa a divertirsi invece di stare a leggere ’sti mattoni…

Io mi obbligavo a quella fatica intellettuale peressere preparato a quella rara opportunità di vivere in una comunità che avrei aiutato a crescere.Presto però mi sarei accorto che la Costa Smeralda tutto era meno che la comunità accogliente che sognavo. E l’ostacolo era proprio l’Aga Khan con la sua proibizione di ammettere la popolazione sarda a stare accanto airicchi turisti italiani e stranieri. Era una direttiva del principe: cancelli ai varchi che portavano alle spiagge per non far passare i sardi, ritorno ogni sera ad Olbia o Arzachena dei sardii quali,negli interminabili meeting col principeche si svolgevano in inglese,dai manager di madrelingua inglesevenivanochiamatinatives, indigeni:His Highness, cioè Sua Altezza, titolo con il quale ci rivolgevamo a lui, lasciava correre.

Scrissi allora un rapporto al principe nel quale legavo il successo dello sviluppo al superamento del dissidio con la popolazione locale, fiducioso che avrebbe sanato quel problema, lui che tanta attenzione e amore metteva nel far rispettare i ginepri, le rocce levigate dal vento, le spiagge lambite dalmare di vivo smeraldo. Ma egli non fece nulla, forse condizionato dall’ambiente snob degli aristocratici inglesi tra i quali era cresciuto o dalle sue lontane origini arabe.

Quella mia esperienza di Sardegna mi faceva apparireDubai come una ripetizione dello schema dell’Aga Khan e mi chiedevo come si sarebbe evoluto quell’emirato che cercava di inserirsi nel mondo moderno con uno sforzo sovrumano.Riprendendo l’aereo per l’India, mi augurai che Dubai non finisse come la Costa Smeralda,che rimaneva vuota e spettrale per lunghi mesi e si popolava solo per la breve stagione estiva.Alla fine avevano vinto i massi di granito rosa, indifferenti alla sferzante solitudine e al vento che fischiava dalle Bocche di Bonifacio dove il mare è sempre in tempesta.

Durante il volo mi venne di pensare, forse per contrasto alle sabbie del deserto, alle foreste dell’Amazzonia,dove ero stato per incontrare il mio figlio adottivo Marinaldo, e alla quantità enorme di ossigeno che quelle foreste fornivano ai popoli della Terra. Anche gli arabi respiravano di quell’ossigeno, però loronon davano al Brasile un po’ del petrolio che estraevano dal sottosuoloin contraccambio:se lo facevano pagare.

2. Auroville

Conoscevo già l’India del Nord, ma era la prima volta che mettevo piede nel Sud. Anche Ursula conosceva il Nord India, dove aveva vissuto da giovane per tre anni come insegnante, e fu felice di tornare in quella terra che lei ricordava tutta coperta di polvere rossa. L’agenzia aveva organizzato un tour per noi due con autista a nostra disposizione, Thomas. Fu una scelta fortunata perché Thomas era impeccabile nella guida sulle strade piene di gente, caprette e vacche che attraversavano continuamente. Visitammo in lungo e largoBangalore, Mysore, Kochi, Trivandrum, Madurai, Cuddalore, Mahabalipuram, Pondicherry…A me l’India piaceva perché ogni persona che incontravo, uomo donna bambino, mi guardava negli occhi e sorrideva.

Non ci stancavamo di visitare i templi immensi, pieni di fedeli che si accalcavano tra profumi di incenso, lampade, doni di frutta, suoni di trombe campanee tamburi: ogni volta mi sembrava di assistere alla nascita dell’universo, e forse non mi sbagliavo. In ognuno di quei templi,difatti,nasceva e si rivelava senza sosta l’universo dei desideri posti al fondodi ogni anima.

Il Sud India ha da vari millenni la stessa tradizione religiosa, gli stessi Dei e la stessa lingua: gode di una salutare continuità che nel Nord Indiaè stata interrotta dalla propagazione di buddismo, jainismo, sikh e islam.

A Kochi, la capitale del Kerala, visitammo la bellissima sinagoga adibita a museo. Ursula si informò sugli ebrei del posto, ridotti a una ventina perché la maggior parte di loro si è era spostata altrove. Ursula è nata svizzera da genitori ebrei. La madre, temendo che Hitler potesse invadere la Svizzera, lediedealla nascita i nomi più tradizionali: Ursula Heidi. Ma il suo nome segreto, quello che la madre avrebbe voluto darle secondo la tradizione ebraica, è Rifka, Rebecca. Sua madre aveva una sorella, Alice Humm, che lavorava come istitutrice aWeimar in Germania, e nonvolle dare ascolto agli inviti pressanti della sorella di rientrare in Svizzera.Un giorno fu prelevata dalla Gestapo e scomparvesenza lasciare traccia finendo quasi certamente nella camera a gas di un lager nazista.

Il tour andò avanti per settimane dal mare alle montagne dove si stendevano le belle coltivazioni verdi e basse del tè. Dappertutto si vedevano giovani e meno giovani con motorini, blue jeans e magliette.Gli abiti indiani cominciavano a perdere terreno e si poteva immaginare che i variopinti sari delle donne fra non molto sarebbero scomparsi. Thomas ci lasciò in lacrime ad Auroville dove ci saremmo fermati per un po’, dicevo a Ursula per non allarmarla. La verità è che io avevo puntato su Auroville e volevo rimanervi un mese intero. Di Auroville avevo sentito dire quanto bastava ad accendere la mia fantasia sempre alla ricerca di un luogo ideale. Ormai mi accettavo così perché avevo capito che era più forte di me: io ero nato col bisogno di vivere appieno respirando e trasudando forti emozioni. La vita organizzata non era per me e l’ambiente manageriale mi sembrava popolato da morti che trafficavano sottoterra preparando organigrammi, budget e previsioni di vendita. Io cercavo di evadere da quel cimitero attraverso un cunicolo che mi scavavo di nascosto e a nulla servivano gli ammonimenti di parenti e amici: Quello che tu cerchi non esiste…

Quando ci registrammo all’ufficio dei visitatori di Auroville ci diedero un foglio dove era scritto:

Auroville vuole essere una città universale, dove uomini e donne di tutti i paesi sono in grado di vivere in pace e armonia al sopra di ogni credo, politica e nazionalità. Lo scopo di Auroville è quello di realizzare l’unità umana.

Prendemmo alloggio nella più bella delle case per ospiti, Swagatham Ashram, diretta da Vijaya, alta ed elegante nel sari, che ci assegnò la suite dove aveva soggiornato il Dalai Lama. Ogni mattina con tocco magico lei faceva scorrere polveri colorate dalle sue dita disegnando fiori leggiadri sul pavimento dell’androne.

Auroville prende il nome da Aurobindo, un personaggio straordinario poco conosciuto in Occidente. Lo scrittore inglese Aldous Huxley parlò di Aurobindo come del Platone delle generazioni future, una definizione che a me sembra quanto mai azzeccata. Aurobindo (1872-1950) figlio di un medico bengalese, fu mandato dal padre a studiare in Inghilterra, dove il giovane si distinse per capacità prodigiosa nell’apprendimento delle lingue classiche, greco e latino, e nelle moderne tra cui l’italiano. Si laureò al King ‘s College di Cambridge e, rientrato in India, si rese conto della miseria nella quale versava il suo popolo e iniziò l’opera di proselitismo per portare il paese all’indipendenza dagli inglesi. Fu imprigionato e alla fine si rifugiò a Pondicherry, che era dominio francese, e lì rimase fino alla morte. Egli fu l’iniziatore del movimento indipendentista portato poi a termine da Gandhi. La vastità della sua cultura, la capacità di profonda analisi e l’abilità nella sintesi culturale tra Oriente e Occidente l’hanno reso unico nel panorama filosofico mondiale. Della sua sconfinata produzione letteraria, l’opera più importante rimane Savitri, un poema in inglese aulico di ventiquattromila versi, diecimila in più della Divina Commedia, dalla quale egli prese il termine Cantoper indicare le sei parti che lo compongono. E’ difficile spiegare lo stile della sua poesia: a me sembra un irrefrenabile sviluppo mistico del Veni Sancte Spiritusdella liturgia cattolica della Pentecoste, un desiderio bruciante di luce e amore capace di inondare gli angoli più bui e remoti dell’esistenza. Negli ultimi venti anni di vita egli interruppe tutti i rapporti col mondo esterno e si dedicò unicamente alla scrittura, convinto che la comprensione profonda delle cose era il solo modo per cambiare il mondo. Nessuno più profondamente di Aurobindo ha esplorato la natura della libertà che definì come unanelito eterno dello spirito, essenziale come il respiro: ogni anima necessita di libertà per portare a termine la sua evoluzione. Una sua frase mi compensò largamente delle fatiche fatte per arrivare fin lì:

Il desiderio di essere liberi dimora in un strato profondo del cuore umano e mille argomenti sono impotenti a sradicarlo. Libertà e immortalità sono in noi stessi e attendono di essere scoperti.

3. La Madre

La vita di Aurobindo si legò a quella di Mirra Alfassa, o Mère, la Madre, come era chiamata una incredibile donna francese (1878-1973) che da bambina ebbe esperienze mistiche e da sposata abbandonò tutto per rimanere accanto ad Aurobindo. Il filosofo considerava Mère come un altro se stesso e le affidò la direzione dell’ashram e dei suoi seguaci per proseguire in solitudine i suoi studi.

Mère ideòuna comunità dove la competizione, i soldi, la nazionalità e il credo religioso fossero irrilevanti,e la fondò su un grande territorio arido e abbandonato. Il 28 febbraio 1968 venne posata la prima pietra della città di Auroville nel luogo che Mère aveva visto in sogno vicino a un banian, un gigantesco alberocon radici aeree che scendono dai rami, raggiungono il terreno e si trasformano in altrettanti tronchiche continuano a fare parte dello stesso albero. Il banian di Auroville ha una trentina di grossi tronchi distanti diversi metri l’uno dall’altro e sostengono rami pieni di foglie sempreverdi. Alla cerimonia inaugurale presenziarono l’ONU e 124 nazioni e,con una legge speciale, l’India riconobbeautonomia amministrativaalla comunità.I principi posti da Mère alla sua base sono:

Auroville non appartiene a nessuno, ma a tutta l’umanità. Per vivere ad Auroville bisogna essere servitori volenterosi della Coscienza Divinala cui discesa sulla terra è destinata ad apportare un radicale cambiamento nella vita e nella materia. Auroville vuole essere il ponte tra passato e futuro e sarà un luogo di ricerche materiali e spirituali per la realizzazione vivente dell’Unità Umana.

Il centro geografico e simbolico di Auroville, che nel tempo è stata tutta piantata di alberi, è il Matrimandir, una enorme sfera di metallo a forma di palla da golf coperta da specchi metallici dorati, un capolavoro di architettura moderna. Il termine significa Tempio della Madre, intesa come coscienza evolutiva universale. I giardini attorno sono curatissimi e all’interno si sale per una bella scala a spirale che immette dentro una grandiosaaula sostenuta da colonne di marmo bianco. Una sfera di cristallo posta in altomanda dentro la luce del sole: i visitatori possono sedere in silenzio per una breve meditazione.Attorno al Matrimandir sono disposte le aree destinate a residenza, scuole, fattorie, giardino botanico, ristoranti. In questacittà ideale il denaro non è il padrone edil lavoro è un modo per esprimere se stessi sviluppando le proprie capacità al servizio della comunità che fornisce ogni cosa ai residenti.

Ad Auroville si respira un clima di spontaneità e si possono frequentare concerti di musica degni di essere eseguitinei teatri europei, spettacoli teatrali in inglese di grande raffinatezza, conferenze su filosofia e yoga di alto livello. I residenti di Auroville sono persone colte per metà stranieri: francesi, inglesi, americani, tedeschi e italiani, circa mille, e altri mille indiani. Indubbiamente il peso degli stranieri è maggiore per la loro disponibilità finanziaria. Numerose sono le coppie con bambini, l’alcol è proibito e la cucina è vegetariana. Il fascino di Auroville consiste nella varietà degli ambienti che vanno dalcampagnolo delle fattorie agricole a quello sofisticato dei centri culturali.

Approfittai della presenza di persone colte e di biblioteche per cercare di capire la forte somiglianza culturale che avevo notato tra India e Grecia antica. Il Dio Indra, il padre degli Dei, era raffigurato con una folgore in mano. Mi chiedevo: Giove, padre degli Dei e con folgore in mano veniva forse dall’India?E la numerologia del Dio Shiva con i significati dei vari numeri, non era simile a quella di Pitagora? E lo stesso Pitagora non mangiava del miele al mattino come suggeriva la medicina ayurvedica? E il rito pitagorico di adorare il sole al mattino non era ancora praticato da milioni di indiani che recitavano all’alba l’invocazione Suria namascar? Ma nessuno seppedirmi nulla su una possibile origine comune di quegli usi né trovai testi scritti al riguardo.

L’organizzazione di Auroville è macchinosa perché basata sul consenso di tutti i residenti, e ottenere l’accordo di tutti su tutto a volte richiede anni. Anche problematica è l’amministrazione finanziaria per l’enormità del territorio e il sostegno dato a tutte le iniziative. Auroville è un campionario di tutte le difficoltà, ma è palpabile la volontà di andare avanti per realizzare un sogno, e credo che alla fine vincerà.

Stimolato nello spirito, dimagrito dalla dieta vegetariana, risanato da favolosi massaggi ayurvedici, riprendemmo l’aereo per Milano a marzo, quando già cominciava il caldo dell’implacabile estate indiana.

4. L’uomo perfetto

L’arrivo a Milano col cielo coperto e l’aria irrespirabile mi fece rimpiangere l’India e i suoi cieli. Avevo terminato l’attività lavorativa e non mi mancava il tempo libero che dedicavo alla mia occupazione preferita: cercare un posto bello dove vivere…Ma dove era quel posto? Raggiunta l’età di settanta anni, dovevo decidermi una volta per tutte dopo sedici traslochi in città e nazioni diverse. Mi calmai al pensiero che forse avevo raggiunto quella perfezione lodata dal mistico medievale francese Ugo di San Vittore: Perfetto è l’uomo che si sente estraneo al mondo intero. Ecco, il beato Ugomi aveva capito con otto secoli di anticipo e mi dava pure del perfetto.

Comunque, per non lasciare spazio a dubbi, seguendo l’uso manageriale americano cominciai a scrivere su un foglio i vantaggi, segnati da un più, e gli svantaggi, segnati da un meno, sotto la dicitura Milanoo Calabria, dove pensavo di ritornare. Conoscevo le difficoltà che avrei incontrato in Calabria, una terra che tutti abbandonavano perché ritenuta invivibile, e questo pensiero mi preoccupava non poco. Ricordavo l’analisi della Calabria fatta da una psichiatra milanese che era stata ospite di amici a Soverato e mi parlò di una frattura psichiatricadell’animo calabrese che aveva riportato danni irreparabili. Quella psichiatra aveva toccato con mano il disprezzo dei calabresi verso la propria terra, la perdita della propria identità, la cattiveria derivante da frustrazioni vecchie e nuove: bastava vedere come sporcavano la loro terra…

Tutti quei pensieri mi tenevano in tensione e forse a causa di questa una notte ebbi un sogno che avevo già avuto nel lontano 1967, quando lasciai la Germania e me ne andai a Parigidopo una grave incomprensione con Erika, la mia ragazza di Monaco, come ho raccontato nel mio Ritorno in Calabria.Arrivaia Parigi a fine settembre, presi alloggio in un hotel e corsi al Louvre per vedere la Gioconda. Al centro del salone, riservato all’arte italiana, vidi Monna Lisa che mi sembrò tornare viva. E difatti sistaccava dal dipinto, si ingrandiva, accentuava il suo sorriso da misterioso a benevolo e veniva verso di me abbandonando lo sfondo dei monti sui quali l’aveva ritratta Leonardo. Turbato da quella visione che pensai dovuta alla fatica del viaggio, lasciai il museo,tornai all’hotel,mi addormentai ed ebbi un sogno carico di colori, mentre prima i miei sogni eranostati in bianco e nero.

Ora, prima di raccontare quel sogno, devo spiegare persone e luoghi che apparivano nel sogno.

Tralò è una collina, posta tra il precipizio di Fabellino sul fiume Alaca e il mio paese Sant’Andrea Jonio, che domina il mare e i monti del Golfo di Squillace con una vista mozzafiato. In quella collina c’era una grande proprietà della famiglia di mia nonna materna Maria Caterina Ranieri, donna di leggendaria bellezza. Quando suo marito, nonno Bruno, ritornò dall’America nel 1947, decise di piantare la vigna nella parte alta di Tralò. Il nonno aveva allora settanta anni, io sei, e lavorava con gusto affondando la zappa in quella terra che aveva abbandonato nei lunghi anni passati nell’Ohio. La terra fu dissodata e pochi anni dopo era una festa andare a Tralò per la vendemmia. Poi, alla morte del nonno, Tralò fu di nuovo invasa da vegetazioneridiventata fitta ed impenetrabile.

Nel sogno io avevo circa venticinque anni, l’età dell’arrivo a Parigi, e nonno Bruno era sui settanta, come all’epoca che dissodò il terreno. Tralò però non si trovava più sul MarJonio, ma era una cima di duro granito ricoperta di ghiaccio in un territorio nordico come la Finlandia. Nonno Bruno mi dava un piccone invitandomi a dissodare, io obiettavo che non era possibile, ma lui, la persona più amabile al mondo, aspettava determinato che iniziassi il lavoro. Allora affondavo il piccone nel ghiaccio, incontravo il duro granito e mi sfiancavo nello scavo. Quando ero arrivato ad alcuni metri di profondità, una forza irresistibile mi risucchiava verso il centro della terra. Mi sentivo stritolato e trattenevo il respiro fin quando venivo espulso con forza dalle parti dell’Oceaniasu una piccolissima isola quadrata,inondata di sole con palme frementi al vento su un mare azzurro. La mia gioia allora era incontenibile e il cuore mi scoppiava in petto per la felicità.

Quel sogno, che si ripeté diverse volte a Parigi e che avevo dimenticato, ritornava ora a Milano come per indicarmi una via da seguire. Alla fine ragionai così. Gli altri hanno ragione a dirmi che sono un sognatore, ma io non riesco a cambiarmi:allora tanto valeprovare a costruire il mondo dei miei sogni nei luoghi che già conosco. Il sogno sembrava dirmi che anche il ghiaccio e il duro granito si possono rompere, e così decisi di ritornareal Sud.

Quando lo spedizioniere venne a prelevare i mobili per il trasloco, piegai il foglio dei vantaggi e svantaggie lo infilai sotto la porta di casa per fermarla. Lo spedizioniere mi disse scuotendo la testa: Fra un anno al massimo mi chiederete di riportare i mobili dalla Calabria a Milano…

5. Budda è arrivato a Eboli

In macchina sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria ero in vista di Eboli e ascoltavo alla radio una docente di storia delle religioni che parlava di Budda. La professoressa narrava del concepimento miracolosodi Budda durante un sogno in cui la madre,Maya, vide un elefante bianco a sei zanne entrare in lei dal suo fianco, e poi la nascita di Budda dal fianco della madre nel boschetto di Lumbini. Nell’udire quel nome mi fermi su una piazzola di sosta per ascoltare con calma.

Difatti, quando anni prima visitavo il Nord India e Nepal, desideravo molto vedere Lumbini che si trova in Nepal vicino al confine con l’India. Chiesi alla nostra guida se era possibile visitare Lumbini, ma lui mi spiegò che quel posto era lontano, oltre la catena del Karakorum, mentre noi dovevamo proseguire in aereo per Benares. La mattina di gennaio che dovevamo imbarcarci,una nebbia bloccò l’aeroporto di Benares e il nostro gruppo dovette volare su un piccolo aereo fino a una città vicina a Lumbini per proseguire in pullman fino a Benares. Il giorno dopo camminavo per il viale alberato che porta al sito archeologicodi Lumbini, dove sono stati portati alla luce importanti resti vicini a una piccola grotta adorna di fiorie lampade, il luogo di nascita di Budda.

Intanto la professoressa alla radio continuò spiegando la profezia del Budda Maitreya o dell’Amore. Il Budda aveva predetto che, molti secoli dopo di lui, sarebbe nato in Occidente il Budda Maitreya, che avrebbe unificato l’umanità nell’Amore superando le difficoltà e le divisioni create dalla storia. Nell’udire quella profezia, tutte le fibre del mio essere vibrarono in un fortissimodesiderio di esser io il BuddaMaitreya e dovetti stare fermo per un po’ e calmarmi prima di ripartire.

Ripresi il viaggio e riflettevo che Budda e Gesù, del quale avevo visitato la grotta a Betlemme, alla fine volevano la stessa cosa, cioè la fine dell’angoscia del vivere e del morire. Budda,però, non si curava di Dio, ma della propria vita che voleva liberare dal dolore. Il dolore secondo lui veniva dal desiderio. E bisognava staccarsi dal desiderio per entrare nello stato di quiete, il nirvana.

Al contrario, Gesùponeva la sua identità con Dio alla base di tutto,voleva che i desideri si compissero e le persone non soffrissero per un desiderio incompiuto: sei malato, io ti guarisco; sei affamato, ti do il pane;sei morto, ti faccio risorgere. Però, riflettevo, sia Budda che Gesù coincidevano alla fine nell’amore: Gesù dice che Dio è Amore e Budda che Maitreya è Amore. Per i due uguale era la partenza, diversa la strada percorsa, ma alla fine arrivavano allo stesso traguardo.

6. L’albero del titolo

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli…

E’ l’inizio de I Promessi Sposi di Manzoni, bello e struggente come la natura montana che descrive e che frequentavo nei fine settimana assieme alla coppia di amici milanesi, Dolly ed Ernesto, che avevano un appartamento a Pasturo, il paese di Agnese,la madre di Lucia fidanzata di Renzo. Risalendo da Lecco in macchina, ci inoltravamo verso la Grigna e già alla fine dell’inverno i primi crochi bianchi e profumati sbocciavano nei prati accanto alla neve che si ritirava. Amo Pasturoper la sua valle amena, le acque dei ruscelli alpestri e gli immensi mammelloni di porfidopoggiati contro la montagna. Queigiganti sembrano voler ricordare l’immensa fatica dell’Essere Primigenio che, dopo avere assunto mille forme, finalmente ha trovato pace in quella roccia rossa come il sangue.

Ma c’è un altro motivo che mi lega sentimentalmente a Pasturo: l’albero del titolo. Era giugno del 1993e passeggiavo nelle stradine fuori paesediscutendo del titolo da dare al primo libro che stavo scrivendo.Difatti, arrivato a cinquant’anni, mi ero reso conto che nel mondo degli affari sciupavo la vita perché dovevo sempre adattarmi a situazioni esterne che non portavano mai all’esplorazione dell’interiorità, verso la quale mi sentivo portato, e mi ero messo a scrivere. Avevo capito di non avere un animo nordico, capace di cogliere le opportunità per far soldi. Anzi, quando quelle opportunità mi si presentavano, io ero quasi indignato del loro invito a coglierle: Ma come si permettono di disturbarmi!mi dicevo.

Quel pomeriggio di giugno 1993 camminavamo lungo una stradina fiancheggiata da alberi, quando all’improvviso mi fermai accanto a un tiglio e dissi: Ho il titolo! Ritorno in Calabria! I miei amici approvarono: Bello! Non lo cambiare!

Non lo cambiai, ma quel libro cambiò la mia vita perché durante la sua lunga elaborazione scavò dentro di me un cunicolo attraverso il quale riuscii ad evadere dallacatacombadel business. Sarà stata l’energia misteriosadi quel paesaggio, che già aveva colpito Manzoni, a farmi trovare il titologiusto?

In quel periodo leggevo anche i libri della teologa Uta Ranke-Heinemann, figlia dell’ex Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Gustav Heinemann, fortemente polemica con la Chiesa cattolica riguardo alla morale sessuale,un argomento che affrontavo nel mio libro raccontando l’esperienza mia e dei miei genitori. Mi venne spontaneo mandare a Uta una copia del manoscritto -lei conosce bene l’italiano- e con mia sorpresa lei mi rispose inviandomi questa Prefazione che tradussi e adottai.

Era mezzogiorno del 24 Dicembre 1993 e già mi vedevo andare con rassegnazione verso un Natale malinconico, nel ricordo dei miei genitori morti e della gioiosità natalizia ormai scomparsa dell’infanzia. Fu allora che l’ultima posta prima delle feste mi portò dall’Italia un manoscritto: Ritorno in Calabria di Salvatore Mongiardo. Anche un ritorno in un passato, quindi. In quella vigilia, completamente immersa nei miei ricordi di infanzia e gioventù, ho voluto rendermi conto di come l’Autore, a me sconosciuto, aveva vissuto il suo ritorno in Calabria. Più leggevo e più il manoscritto

mi affascinava. Era per me l’incontro con una terra straniera del Sud, con il suo profumo, il suo sole, la sua dolcezza e la sua religiosità. E proprio su quest’ultimo punto era come se qualcuno mi avesse mandato delle immagini in risposta a una domanda che da molto mi teneva impegnata. La domanda è: che effetto opera sulle persone il cristianesimo cattolico? Le rende più illuminate e umane o al contrario le opprime e toglie loro molta umanità e gioia? E mi sembrava, quasi che il libro materializzasse in immagini i miei pensieri, che il cristianesimo forse era una tetra educazione alla disumanità, alla crudeltà. Il cristianesimo come superstizione di una redenzione attraverso il sangue, come se ogni sera, nell’accendere la televisione, il sangue che scorre sui tappeti del nostro soggiorno

da Jugoslavia, guerra del Golfo, Somalia, non dimostrasse il contrario: che sangue ce n’è da non poterne più, ma da ciò non viene nessuna salvezza. Ritorno in Calabria: la giovane, bella madre dell’Autorela quale, travolta dall’angoscia della dannazione eterna da sacerdoti cattolici avidi di sacrifici, nel fiore dei suoi trent’anni si ritira in un’altra stanza per non dormire più con il marito perché la contraccezione porta all’inferno. Vergine-Madre (nato da Maria Vergine) e Carnefice-Padre (crocefisso per la nostra salvezza): chi salva la Calabria, chi salva il mondo da una religione che scivola nell’incubo? Ritorno in Calabria: è più di una semplice via del ritorno. Salvatore Mongiardo è sul punto di abbandonare le pesanti ombre cattoliche per riprendere a modo suo, ancora una volta, la propria strada. A volte dimentichiamo presto uomini e cose, a volte li teniamo a lungo nella mente e nel cuore, a volte addirittura per sempre. Ho incontrato questo libro sulla mia strada in una Notte Santa, e credo che lo conserverò per sempre.

Il mio ritorno a vivere in Calabria era il compimento di un continuoritorno fatto con la mente che navigava nel mare deiricordi della mia infanzia e giovinezza. L’italianista professor Antonio Piromalli, ne La Letteratura Calabrese scrisse a proposito del Ritorno in Calabria:

L’Autore comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella del buco nero che aveva spento in lui la gioia di vivere… la Calabria, grande caleidoscopio che muta sempre colore, è sullo sfondo di tutte le azioni e di tutti i pensieri… Il romanzo è molto importante perché assegna alla Calabria una funzione storica nel futuro… la Calabria è madre dell’Italia… dal Sud dovrà muovere il risanamento dalla violenza…. La natura dell’Autore è profondamente religiosa fondata sul concetto di resurrezione e non di morte quale principio che la morte di un innocente è necessaria per la salvezza…

7. La cassa americana

Da bambino avevo visto diverse casse americane nelle case di parenti e amici, alte, scure, rinforzate di borchie. Quelle casse venivano usate dagli emigrati che ritornavano definitivamente dall’America per portare a casa vestiti, scarpe, suppellettili e regali. L’arrivo della cassa americana era un avvenimento per il parentado che si riuniva per l’apertura. A me quasi scoppiò il cuore dalla gioia quando mio nonno Bruno, nel 1947, prese dalla cassa americana un uccellino di latta colorata che muoveva le ali e me lo diede.

Alla fine del 2013, quando chiusi casa a Milano per rientrare in Calabria, non portai con me nessuna cassa perché in Calabria avevo già la mia abitazione. Immaginiamo però che avessi una cassa con le cose importanti di un emigrato,vediamo cosac’era dentro.

La prima cosa è il Ritorno in Calabria, il libro che abbiamo già visto, del 1994. A quello poi seguì nel 2002 un secondo libro, Viaggio a Gerusalemme, diario di un pellegrinaggio in Terra Santa guidato nel 1999 dal Cardinal Martini di Milano. In quel libro affrontavo il problema della violenza che nasce dalla concezione mediorientale del sacro, dottrina che vuole che la salvezza venga dal sangue della vittima innocente, come si dice ancora dell’agnello di Dio e di Cristo. Al contrario, a me la storia dimostrava che il sangue innocente aumentava la violenza, cioè il peccato: non lo lavava né lo cancellava. Insomma, la figura di Cristo, che aborriva sacerdoti, Tempio e sacrifici di sangue,in quel libro emerge diametralmente opposta alla cultura biblica e alla dottrina della Chiesa.

La terza cosa fu ancora un librodel 2006, Sesso e Paradiso, dove riesaminavo i tormenti che l’educazione sessuale cattolica mi aveva creato neimiei sette anni di studio nei seminari della Calabria. Quel libro pose una serie di interrogativi: Ma il sesso cos’è? Frutto proibito, offesa a Dio, colpa, vergogna? Desiderio inestinguibile, eros, perdizione, passione, donazione del proprio corpo, procreazione? Sogno e fantasia o violenza e trasgressione? Il sesso deve essere sublimato o vissuto anche nelle manifestazioni più basse? Dona felicità o crea angoscia?

A tutte quelle domande davo una rispostastrana: Il sesso è forza invincibile, necessaria per scoprire il mistero dell’Esistente e trasformarlo in Dio. Il sesso è la porta dell’immortalità.

La quarta cosa era di nuovo…un piccolo libro nel 2008, Perché la violenza, una breve ricapitolazione delle complesse cause della violenza, alla quale davo molta importanza quale origine dei mali del mondo e dell’infelicità del vivere. Il libro terminava con l’augurio che nascesse un’Accademia Mondiale Antiviolenza e radunasse il meglio dell’intellighenzia mondiale per lo studio e la prevenzione della violenza umana.

Ovviamente la quinta è il libro Cristo ritorna da Crotone del 2013, opera che esplora la radici culturali di Gesù le quali dal mondo italico-pitagorico erano arrivate a lui tramite gli esseni, i pitagorici del mondo ebraico. Difatti, dalla Scuola Pitagorica di Crotone che unìla cultura italica e la greca creando così la Magna Grecia, venivano i cavalli di battaglia di Gesù: la liberazione degli schiavi, la giustizia sociale, i beni in comune, il rifiuto dei sacrificidi sangue. Questolibro corregge la figura di Cristo, deformata dalla cultura sacrificale biblica, e ristabilisce con chiarezza l’origine e la finalità del suo messaggio. Una monaca, mia attenta lettrice, mi scrisse che quel libro rappresenta la vera incarnazione di Cristo, quella avvenutanelle culturedei popoli.

E non c’era altro in fondo alla cassa? Sì, sottoi libric’eral’esperienza di una vita passata come una traversata su una barchetta a vela in un mare agitato. Poi,proprio in fondo, c’era unbue di pane. Sì, un pane a forma di bue, forte e cornuto, con la coda alzata a frustarsi la schiena come fa al momento della riproduzione.

8. Il bue di pane pitagorico

Dopo l’uscita del Ritorno in Calabria, mi ero reso conto che un libro non bastavaa cambiare la realtà, e decisi di riaprire il sissizio, il convivio sul quale re Italo,intorno al 2000 avanti Cristo, aveva fondato l’Italia nelle terre di Calabria compresetra i golfi di Squillace e Lamezia. Il sissizio, parola greca che significa mangiare insieme, era un raduno dove si portava il grano raccolto che si divideva in parti uguali.

Possiamo ragionevolmente immaginare che a uno di quei sissizi partecipò, intorno al 570 avanti Cristo, un ragazzino cheil padreportò con sé a Crotone in un viaggio di affari, come attesta Porfirio, uno dei biografi di Pitagora. Mnesarco, così si chiamava il padre di Pitagora, era un greco dell’isola di Samo, abile intagliatore di pietre per anelli che gli abitanti di Crotone, Sibari e Locri compravano a caro prezzo.

Durante quel primo viaggio a Crotone, Pitagora vide probabilmente un bue panedurante un sissizio. Gli itali, difatti, facevano panidi quella forma per ringraziare l’animale che aveva arato i campi per la semina.

Nelle vite di Pitagora è scritto che egli, quandopoi intorno al 530 avanti Cristo tornò definitivamente a Crotonee fondò la sua scuola, offrì agli Dei un bue di pane per ringraziarli dellascoperta del suo famoso teorema. In realtà con quell’offerta Pitagora riaffermava anche il principio che la violenza entra nell’uomo con l’uccisione degli animali. Difatti diceva: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. La pace è una consuetudine che nasce dal rispetto degli animali.

Dei sissizi antichi, che dall’Italia di allora si erano diffusi in tutto il Mediterraneo,si erano perse le traccefinché non furono riaperti da noi nel 1995. Durante uno dei sissizi moderni, una partecipantemi disse che ricordava la vacchetta di pane che le madri facevano a Badolato col primo grano mietuto e lo davano ai bimbi, una tradizione ormai scomparsa. A giugno del 2014 un mio lettore mi disse che a Spadola, un paese vicino a Serra San Bruno, si faceva ancora la vacchetta di pane per la festa di San Nicolala prima domenica di agosto. Mi precipitai in macchina a Spadola e in chiesa incontrai il parroco, Don Bruno La Rizza, che mi disse con grande rammarico che da quel momento non si poteva più fare…

Difatti, alcuni giorni prima c’era stato a Oppido,alle falde dell’Aspromonte,l’episodio dell’inchino della statua della Madonna davanti alla casa di un capo della ’ndrangheta, e le autorità avevano proibitoche le processioni si fermasserodavanti alle case. Ora, proprio la tradizione di Spadola voleva che alcune famiglie facessero vacchette di pane che davano ai fedeli durante la fermata della statua davanti a casaloro… Era una situazione ingarbugliata che Don Brunorisolse facendo portare le vacchette di pane in chiesa, le benedisse e diede al popolo. Avevamo salvato una tradizione che durava ininterrotta da millenni!

Il primo sissiziomoderno si svolse nel 1995 nella pineta del mio paese, Sant’Andrea Jonio, e fu una grande festa popolare con pifferi, zampogna e tamburi. Poi ci furono i sissizi di Locri, Santa Caterina, Badolato, Isca, Davoli, San Sostene, Soverato, Serra san Bruno, Amantea, Cerva, Savelli, Crotone, Viterbo, Roma e Costa Brava in Spagna. Negli ultimi anni il sissizio si è trasformato da festa popolare in cena rituale filosofica vegetariana.

9. Donne di Calabria

La donna di Calabria, finché non ha figli, è più o meno come le altre. Tutto cambia però quando lei partorisce un figlio che, come vuole la natura, viene separato da lei col taglio del cordone ombelicale. La calabrese non accetterà mai quel taglio e non si rassegnerà ad essere separata dal figlio. E passerà tutta la vita a ricreare quel cordone in ogni circostanza guardando con odio o sufficienza la moglie o il marito che i figli prenderanno.

La madre anglosassone che dà la valigia ai figli di diciotto anni e li manda via di casa per farsi la propria strada, è per la donna calabrese la prova che i nordici sono gente crudele e senza cuore.

Questa diversità antropologica della calabrese, che affonda nella notte dei tempi, mi saltò per caso agli occhiquando ripresi le ricerche sui parti verginali di Maya, la madre di Budda, Iside, la madre di Horus e Maria, la madre di Gesù,che avevano procreato senza congiungimento col maschio. Maya era stata fecondata dall’elefante che le aveva aperto il fianco con sei zanne, Iside poté congiungersi ma non carnalmente con Osiride, del quale non si trovavapiù il fallodopo che il geloso fratello Seth l’aveva fatto a pezzi. Maria, come è scritto nei Vangeli, fu fecondata ad opera dello Spirito Santo.

Una mattina di gennaio 2015che la tramontana copriva di spuma bianca il Golfo di Squillace, capii il messaggio nascosto in tutti e tre i miti:

Il vero potere e compito della donna è destabilizzare la società e questo può avvenire solo quando la donna si congiunge direttamente col Diodimenticando il maschio e leregole da lui imposte.

Solo allora nascono dei figli come Budda, Horus e Gesù che portano un cambiamento radicale. La donna che unendosi col Dio genera grandi cambiamenti, ha avuto una lunga fioritura nella prima Italia con le menadi o baccanti, donne che seguivano il culto di Dioniso o Bacco.All’apparire del Dio, abbandonavano marito e figli, casa e focolare, telaio e conocchia e seguivano Dioniso nei boschi al grido di Evoè, parola che significa evviva. Bevevano vino, entravano in danza orgiastica e si accoppiavano col Dio o con schiavi che così acquistavano la libertà. Quei riti, i Baccanali, si erano diffusi fino a Roma, dove erano diventati licenziosie furono proibiti sotto pena di morte con un Senatoconsulto nel 186 avanti Cristo. In realtà i romani, più che alla morale sessuale, badavano a conservare la schiavitù sulla quale la loro economia era basata, schiavitù che i Baccanali mettevano in discussione.

Lo stesso anelito di liberazione si espande dall’episodio della Vergine Maria, che all’annuncio dell’angelo, prima si dichiara pronta all’ubbidienza: Sono la serva del Signore, cioè una sua schiava.Quando però il figlio di Dio cresce nel suo grembo, lei prende coscienza e annuncia il grande cambiamento nel Magnificat:

Ha deposto i potenti dal trono

Ha esaltato gli umili

Ha riempito di beni i miseri

Ha mandato i ricchi a mani vuote…

Euripide nelle Baccanti, la sua più grande tragedia, descrive le baccantiche uccidono il re di Tebe Penteo, un sovvertimento violento del potere costituito. Invece nella Bibbia, nel libro dei Proverbi, è fatta una descrizione della donna virtuosa in pieno contrasto con le baccanti:

Una donna virtuosa chi la troverà?

Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle.

Il cuore di suo marito confida in lei,

Ed egli non mancherà mai di provviste…

Si procura lana e lino,

E lavora gioiosa con le proprie mani…

Mette la mano alla rocca,

E le sue dita maneggiano il fuso…

La donna lodata dalla Bibbia per la conduzione perfetta della famiglia, si rivela alla fine la garante di un ordine sostanzialmente ingiusto che sfocia fatalmente in guerre che massacrano i figli da lei nati.

10. Dalla Magna Grecia alla Grecia

Chiuso a fare ricerche sul passato, all’inizio della primavera del 2015 fui preso dalla frenesia di andare in Grecia per una lunga vacanza, quasi a fare un bagno in una civiltà che mi ha sempre appassionato. Mi organizzai assieme a due amici di nome Mario e ai primi di maggio percorremmo in macchina la strada statale 106, oggi chiamata strada della morte per gli incidenti; ai tempi antichi invece era percorsa dai filosofi pitagorici che andavano da una colonia all’altra: Crotone, Sibari, Eraclea, Metaponto, Taranto… Quelle terre, chiamateMagna o Grande Grecia per l’altezza della filosofia pitagorica, erano ora in miseria e abbandono. Ci imbarcammo da Brindisi per Igoumenitsa e da lì raggiungemmo Lefkada, la prima delle Isole Ionie, immersa in una luce abbacinante.

Sull’isola mi tornò in mente il mito della poetessa Saffo, checantòcome nessun altra le vibrazioni dell’animo femminile,e che proprio a Lefkada si suicidò per una delusione d’amore. La immaginavo nuda sul promontorio prima di lanciarsi in mare mentre recitava i suoi versi sublimi:

Sono qui

Alle porte del cielo

Vestita di solo desiderio…

Mi sembrò di vedere i gabbiani che l’accompagnavanonel folle volo e l’onda del mare che si aprivaper accoglierla in un letto di freschezza.

Dopo Lefkada, percorremmo Cefalonia epoi tornammo sulla terraferma visitando Missolungi, Lepanto, Delfi, Tebe, Corinto, Patrassoe Olimpia.PoiAtene, Maratona e Rafina, da dove ci imbarcammo per le Cicladi visitando Andro, Tino, Mykonos, Delo, e alla fine arrivammo a Samo.

Volevo visitare Samo per la riscoperta e lo studio di Pitagora, originario di quell’isola, al quale mi ero dedicato a fondo durante la scrittura del mio Cristo ritorna da Crotone. E difatti, le mie ricerche dimostravano senza equivoci che il padre culturale di Cristo non era il pastore mediorientale Abramo, che alzava il pugnale contro il figlio Isacco, ma Pitagora, come ho già accennato. La diffusione rapida del cristianesimo in tutto l’impero di Roma, non fu un evento miracoloso, ma si verificò per la preparazione del terreno fatta dalla filosofia pitagoricanei cinque secoli precedenti Cristo.

Visitare e toccare a Samo i luoghi e il mare frequentati da Pitagora era un must che non potevo lasciarmi sfuggire. Fino ad allora il viaggio in Grecia era stato deludente per l’atmosfera pesante generata dallo scontro politico tra il cancelliere Merkel e il governo greco sulla permanenza nell’euro. I greci erano impauriti, frustrati, scontrosi. Avevano perso anche la loro proverbiale allegria e si notava il degrado consacchi di spazzatura dappertutto. Aspettavano forse che andasse la Merkela portarli via?

Ragionando poi con calma, mi accorsi che la crisi greca non era una sola, ma la somma di varie crisi. Tutti i villaggi delle isole erano praticamente vuoti e si popolavano solo d’estate per riaprire ristoranti e alberghi per turisti. Gli infiniti scheletri di cemento armato di costruzioni non terminate indicavano una crisi immobiliare colossale. Le stesse chiese ortodosse, da sempre baluardo dell’identità greca, erano poco frequentate o chiuse. Addirittura i giovani preferivano l’alfabeto latino a quello greco nell’uso del cellulare. Insomma, Grecia e Magna Grecia erano afflitte dagli stessi problemi: crisi di identità, frustrazione, povertà, emigrazione, rabbia. Poveri noi magnogrecie poveri greci,i quali nei millenni avevano resistito a persiani e turchi, ma ora erano in ginocchio davanti al dio danaro. Per incoraggiarli avevo scritto questa poesia, tradotta in greco, che regalavo negli alberghi e ristoranti:

Alla Grecia

Sempre ti ho amato, o Grecia, e ora penso

All’azzurro assolato del tuo mare

In questi giorni che nordiche brume

Offuscano i tuoi lidi di sogno

Dove nacquero Venere ed Apollo,

Dio dall’arco d’argento.

Feroci artigli di avidi banchieri

Non riusciranno, o Grecia, non temere,

A rubarti la luce del pensiero

Di cui sei la feconda genitrice.

Grecia, divina madre di eroi,

Ai barbari opporremo il nostro petto

E lotteremo con l’arciere Apollo

Che lanciando i suoi strali luminosi

Dissiperà la nordica caligine.

Salvo qualche raro apprezzamento, i greci la leggevano frastornati come il messaggio incomprensibile portato da un alieno. Mi dedicai comunque a una puntuale esplorazione dell’isola di Samo visitando le rovine del Tempio di Hera, del quale resta in piedi una sola colonna, come nel Tempio di Hera Lacinia a Crotone. Quel tempio fu costruito ai tempi di Policrate, il tiranno di Samo che cercò di farsi amico Pitagora associandolo al governo dell’isola. Ma Pitagora non si fece abbindolare, si nascose e poi fuggì verso Crotone. La vicenda di Policrate è tra le più inverosimili del mondo antico ed è riportata da Erodoto nelle Storie. Eccolariassunta.

La fortuna di Policrate era cresciuta molto e le sue spedizioni gli riuscivano felicemente. Aveva cento navi a cinquanta remi e mille tiratori d’arco… Il faraone di Egitto Amasinon ignorava la grande fortuna di Policrate, ma questa gli dava piuttosto dell’inquietudine. E siccome tale prosperità si faceva più grande, scrisse una lettera. “Amasi dice questo a Policrate: Fa piacere che un amico è fortunato, ma i tuoi grandi successi mi procurano turbamento, perché so che la divinità è invidiosa… Infatti, non ho mai sentito dire di alcuno che, essendo in tutto fortunato, non abbia malamente concluso la sua vita… Tu, dammi ascolto e fa’ così: pensa qual è l’oggetto per te più prezioso e la cui perdita ti darà il più grave dolore e gettalo via in modo da farlo scomparire”.

Policrate, si diede a cercare fra i suoi tesori quello per la cui perdita avrebbe sofferto di più: un sigillo,incastonato in un anello d’oro, fatto di smeraldo, opera d’arte di Teodoro di Samo. Deciso a disfarsene, ecco come fece: allestita una nave a cinquanta remi, vi salì egli stesso e diede ordine di portarlo in mare aperto; quando fu ben lontano dalla sua isola, alla vista di tutti i compagni di navigazione, sfilatosi l’anello lo gettò tra le onde. Quattro o cinque giorni dopo, un pescatore prese un pesce grande e bello e pensò che valesse la pena di farne dono a Policrate. Portatoloalle porte della reggia, chiese di essere ammesso alla sua presenza egli disse: “O re, ho pescato questo pesce e ho pensato che è degno di te e te ne faccio dono”. Ma quando i servi tagliarono il pesce, trovarono che nel ventre c’era l’anello di Policrate; come lo videro, lo portarono tutti contenti a Policrate egli spiegarono in che modo era stato trovato. Gli entrò, allora, nell’anima l’idea che quel fatto fosse di origine divina…E difatti gli dei non avevano accettato il sacrificio di Policrate che, indotto con l’inganno dal satrapo persiano Orete a un colloquio a Magnesia, nell’odierna Turchia, fu catturato e crocifisso.

Dopo aver riletta quella storia, cominciai a pensare che Samo era un’isola che favoriva fenomeni di alta energia come quello di Policrate o la nascita di Pitagora, il più grande e ancora oggi il più incompreso dei filosofi antichi. Un giorno, un ufficio turistico ci consigliò di andare a visitare le Grotte di Pitagora. Avevo letto nei testi antichi che Pitagora si nascondeva nelle grotte per sfuggire a Policrate, ma ignoravo che esistessero realmente. Quella era una visita da fare, soprattutto ora che avevo in mente l’apertura della Nuova Scuola Pitagorica a Crotone per rinverdire, dopo più di venti secoli di chiusura, l’Antica Scuola aperta da Pitagora in persona.

Mi organizzai con i due Mario e partimmo il giorno seguente in direzione nordovest per Karlòvasi.

11. Le Grotte di Pitagora

Percorrendo la strada costiera si vedevano rocce dappertutto:Samo era più alberata delle altre isole, ma era sempre una montagna di calcare e sassi. La vita nei tempi antichi non deve essere stata facile, eppure i grecidi allora riuscirono ad accendere negli animi passioni sublimi che nascevano dalla loro fertile mente forse per contrasto al pietrame del territorio. Arrivammo a Karlòvasi e risalimmo verso la montagna di Kerkis che,alta mille e cinquecento metri, si imponevagrigia di granito fino alla baia di Marathòkampos a sud, dove un cartello indicava la strada per le grotte. Pitagora aveva le sue grotte, Budda la sua a Lumbini, Gesù a Betlemme: la grotta era il richiamo inconsiodell’utero materno? Lasciammo la macchina e percorremmo a piedi un sentiero che portava a una interminabile gradinata scavata nella roccia. Ilparapetto era rotto in parte e igradini sbrecciati si affacciavano sul precipizio.

La giornata era piena di sole e la salita faticosa terminò davanti alla chiesetta bizantina,posta difronte alle due grotte che si aprivano come occhiaievuotenella roccia. La grotta di destra era sbarrata da un’inferriata per motivi di sicurezza, ma si poteva entrare in quella di sinistra dove si rifugiava Pitagora.L’entrata non era molto alta e potei toccare un ciuffo di capelvenere che pendeva dalla roccia dell’ingresso. Guardaiverso l’interno vuoto e all’improvviso apparve la figura di un uomo alto circa due metri e mezzo, coperto fino ai piedi da una tunica bianca, sulla testa un copricapo biancocon falde ai lati,immobile con le mani lungo i fianchi. Era senza volto estava ritto su uno scoglio contro il quale si avventava un’onda di mare furiosa. Frammisti all’ondac’era sabbia sollevata dalla tempestae tanti pezzetti di legno sballottolati.Ero cosciente che quell’uomo era un filosofo,che quel filosofo ero io e,se volevo,potevo prendere quei legnettie metterli al sicuro. Ero cosciente anche che quei legnetti erano le anime di donne perse: i due più grandi erano l’anima di mia madre, morta da tempo, e quella di mia sorella Anna, morta a fine 2014. Tutto era avvolto da quiete sovrana e non provavo nessun timore. All’improvviso la visione, durata forse un minuto o poco più, scomparve,e la grotta tornò vuota. Era mezzogiorno del 24 maggio 2015.

12. Le Grotte dell’Apocalisse

Il giorno seguente andai a passeggiare sul molo di Pitagorio, come è chiamata la cittadina sul mare che ai tempi di Pitagora, da cuiin seguito prese il nome, era la capitale dell’isola. Guardavo la moderna statua di bronzo a lui dedicata, ma il verde rame che la copriva e i triangoli che richiamavano il suo teorema non mi ispirarono gran che. Avevo viva in mente la visione della grotta del giorno prima e cominciai a pensare che era meglio imbarcarci e tornare a casa, visto che eravamo in giro da un mese. Andammo all’ufficio del turismo a chiedere informazioni sui traghetti ela bella Demetra, che ci aveva in simpatia, si meravigliò che volessimo partire senza aver visitato le grotte dell’Apocalissea Patmos, erano lì a poche miglia,e poi la casa della Madonnaad Efeso…Così comprammo i biglietti.

La serastavo per addormentarmi quando all’improvviso rividi la figura di Kosmàs, il monaco greco ortodosso del Monte Athos, che mi diceva: Un giorno visiterai le Grotte dell’Apocalisse a Patmos!

Era successo più di dieci anni prima, quando era uscito il mio libro Viaggio a Gerusalemme, che avevo dato da leggere al monaco. Lui allora viveva tra le rovine del vecchio monastero di San Giovanni Teresti a Bivongi, accanto a Stilo. Kosmàs lo lesse e ne parlammo a lungo:lui faceva fatica a capire la mia affermazione che Dio Padre che accetta il sangue del figlio Gesù era pura follia. L’aveva colpito però la spiegazione pitagorica che davo del libro più misterioso di tutti, l’Apocalisse:

La violenza del mondo finirà quando l’Agnello non sarà sgozzato, ma adorato vivo sul trono di Dio.

Quella frase l’aveva fatto riflettere e, quando ci lasciammo, mi raccomandòvivamente di andare a visitare il luogo dove l’Apocalisse era stata scritta: Va’ alle Grotte dell’Apocalisse a Patmos!

Ero poi andato nel 2009 a trovare Kosmàs sul Monte Athos, dove viveva in una casetta nel bosco, dopo che l’avevano allontanato dalla Calabria con inganni e congiure, come ho raccontato nel mio libro Cristo ritorna da Crotone. Lui bramava tornare in Calabria, era la sua terra di elezione, la terra della sua anima. Diceva in continuazione:

La perdita della cultura calabrese è un lusso che il mondo non può permettersi!

Non gli fu concesso di tornare e morìa dicembre 2010,solonella sua casetta,stroncato dal dispiacere.

Da Samo il traghetto ci portò a Patmos e salimmo sulla collina dominata dal grande monastero di San Giovanni, fortificato nel tempo per resistere all’avanzata dei turchi. C’erano molti visitatori del complesso monastico,costruito sopra la grotta nella quale San Giovanni Evangelista, che i greci chiamano il Teologo, vissenel 95 e 96 dopo Cristo. Egli fu deportato lì da Efesodurante la persecuzione dei cristiani scatenata dell’imperatore romano Domiziano. Era già centenario, se è vero che visse centosei anni, e fu rimesso in libertà dopo l’assassinio di Domiziano nel 96. In quella grotta, secondo una tradizione consolidata, egli dettò al discepolo Pròcoro il libro dell’Apocalisse. In un angolo della grotta c’è ancora il giaciglio di roccia sulla quale il santo si coricava, e a lato era scavata una fessura nella parete dove il santo poteva mettere la mano per sostenersi quando si alzava.Approfittaivelocemente della distrazione del monaco guardiano e vi infilaila mia mano.

Il giorno seguente facemmo la breve traversata verso la Turchia per visitare le imponenti rovine di Efeso e la Casa della Madonna. Quella casa, dove lei visse fino alla morte con San Giovanni, è ora trasformata in una cappella con una piccola statua di Maria senza mani:era così quando venne ritrovata dopo la guerra d’indipendenza turca del 1922.Alla fine visitammo anche un monumento tra i più insigni, la Basilica e la Tomba di San Giovanni a Selcuk, vicino a Efeso. Il complesso, gigantesco e bellissimo, dimostra la venerazione sconfinata che i primi cristiani avevano per il Teologo.

La notte seguente il traghetto ci portò da Samo a Kavala, al nord della Grecia sulla terraferma. Da lì,dopo circa trecento chilometri,arrivammo ad Istanbul dalle dimensioni così smisurate chefacciofatica anche a pensarle. Rimanemmo alcuni giorni a visitare Santa Sofia, l’Ippodromo, la Cisterna di Giustiniano…

Visitando il palazzo imperiale di Topkapi, ammirai tutti gli splendori e i tesori, ma quando arrivammo alla parte destinata all’harem del sultano, sentii una tale angoscia serrami il petto che dovetti interrompere la visita e uscire a respirare. Stavo male al pensiero delle centinaia di donne chiuse come uccellini in gabbia, obbligate a passare la vita in attesa di un improbabile incontro col sultano. Mi sembrò una cosa così terribile e innaturale che pregai con tutto il cuore affinché le anime di quelle donne potessero amaree vagare libere nell’immensità dell’universo.

13. Il mistero di San Giovanni

Il rientro in Calabria ai primi di giugno mi sembrò come l’arrivo al paese di bengodi: le colline erano ancora verdi e lungo le strade i banchetti per la vendita di frutta e verdura erano infiniti e fornitissimi. Mi venne immediato il raffronto con gli striminziti banchetti delle isole greche che offrivano qualche pomodoro e melanzane. Il sole cominciava a picchiare forte,il mare si vestiva di turchese e ne approfittavo che recarmi alla casetta sul lungomare di San Sostene, accanto al fiume Alaca, dove da bambino avevo avuto il battesimo della paura scivolando in una pozza d’acqua. Poi c’era la spiaggia dalla sabbia bianca e finissima,miracolosamente scampata alle devastazioni urbanistiche,ancora vergine come nella mia infanzia, con ciuffi di cineraria dalle foglie grigie e fiori giallo oro. Ogni tanto guardavo verso oriente come per ricollegarmi alle isole greche, da dove ero appena tornato, carico di domande irrisolte. Era sempre così nei miei viaggi che, invece di calmarmi, mi creavano nuove domande e maggiori tensioni. Dalla Grecia mi ero portatala visione avuta nella Grotta di Pitagora, un episodio che mi inquietava perché nulla di simile mi era mai successoprima. E c’era poi la vicenda di San Giovanni del quale qualcosa di molto grosso mi sfuggiva. Ne ero sicuro perché sentivocontinuamente come il battere del martello sullo scalpello chescavava, nella Grotta dell’Apocalisse,la buca dove il santo infilava la mano per sostenersi.

Era vicino il solstizio d’estate e camminavo a piedi nudi sulla battigia, mentre la spiaggia bianca sembrava alzarsi verso il cielocome una fontana di luce. Una mattina il bagliore del sole, prossimo ormai alla massima gloria del solstizio, mi inondò e mi sedetti, temendo un’insolazione, all’ombra di un capanno di canne abbandonato. Stetti a guardare lo sciacquio delle onde blu joniche mentre una voce dentro di me mi diceva: Non capisci? Giovanni era il discepolo prediletto di Cristo, l’unico evangelista che narrò gli avvenimenti che aveva visto con i propri occhi, l’unico presente alla crocifissione, il primo a correre alla tomba vuota del maestro.Poi visse per decenni con Maria come sua madre, e chissà quante volte avranno ricordato insieme gli avvenimenti dei quali erano stati spettatori o protagonisti…Certamente avrà saputo della morte di Giacomo, il fratello di Gesù, ucciso dal sommo sacerdote Anano nell’anno 62, quando Maria forse era già in cielo… Un uomo che a cento anni detta un libro come l’Apocalisse doveva avere dentro di se un problema cosìgrosso che né Gesù né la Madonna avevano risolto…

Non sapevo come orientarmi e d’altra parte temevo di essere sul punto di esaltarmi fuori controllo: troppe visioni si affollavano attorno a me nelle grotte, sulla spiaggia, nella mia testa. Delle interpretazioni di altri, soprattutto teologi, avevo imparato a non fidarmi perché erano sempre costruite per dimostrare qualcosa alla quale volevano arrivaregià in partenza, e non tentavano mai vie nuove. D’altra parte sapevo che non avrei trovato pace finché non avessi dipanato quella arruffatissima matassa e così, rincuorato dall’immagine di Giovanni che a cento anni con voce flebile dettava a Pròcoro l’Apocalisse, pensai di sbrigarmela da solo.

14. Logos, Amore, Padre

Decisi di esaminare per l’ennesima volta le opere scritte di Giovanni, e cioè il quarto Vangelo, l’Apocalisse e le sue tre Lettere. Era una rilettura che facevo volentieri perché ritengo Giovanni il sommo scrittore della letteratura mondiale. Ero arrivato a questa conclusione dopo avere letto la pagina dell’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicàr, pagina che leggo sempre in piedi in onore del sommo Giovanni. Chi legge quella pagina capisce perché tutti i grandi della letteratura vengono dopo di lui.

Il Vangelo di Giovanni risente molto del suo sforzo di capire e accettare la filosofia greca, e soprattutto il suo rappresentante più famoso, Eraclito, che era proprio di Efeso, dove Giovanni si era trasferito. La dottrina di Eraclito è quella del Logos, impropriamente tradotto come Verbo, ma che nel greco e nel contesto filosofico significa semplicemente Logica, una legge cioè che governa tutto l’essere e che è molto difficile da scoprire. All’inizio del Vangelo Giovannidice che Dio era il Logos:quindi un’astrazione, non una persona. Alla fine del prologo però Giovanni corregge il tiro dicendo che il Logos si è fatto carne e abitò tra noicome figlio unigenito che viene dal Padre.

Da quel momento la presenza di Dio Padre nel Vangelo diventa schiacciante: l’identità di Cristo col Padre, la sua volontà e la missione affidatagli, tutto si fonda sul Padre. E’ la dottrina della paternità di Dio che Cristo ripete ben settantasette volte nel Vangelo, tre nella seconda Lettera e sette nella prima Lettera, quella nella quale dice: Dio è amore. Anche qui ritorna un’astrazione: l’amore è una passione, una persona può amare, ma non essere l’amore.Sono comunque forzature letterarie usate per esprimere cose molto pregne di significato.Al sommo Giovannisono permesse queste e altre licenze letterarie.

Mi rimaneva ancora da leggere l’Apocalisse, e volli aspettare l’alba perché quel libro crea profonde inquietudini nella notte. Quando però all’alba il sole scacciò le tenebre col suo luminoso scudisciò, mi alzai, rilessi tutta l’Apocalisse e alla fine mi chiesi dove fosse finito Dio Padre: in tutto il libro non era menzionato nemmeno una sola volta!

Cominciavo a rendermi conto che quell’imbroglio era troppo grosso e mi rivolsi a chi l’aveva creato, a San Giovanni, pregandolo davanti all’icona che avevo comprato a Patmos: Ti prego, aprimi la mente e fammi capire se c’è qualcosa che posso fare per questo mondo che è allo sbando…

E già, perché pochi giorni dopo il mio rientro, con stupore e incredulità vidi dai telegiornali gli sbarchi di profughi siriani proprio a Samo, sulle spiagge dove ero appena stato, e bambini annegati portati dalle onde a riva come pescetti morti. Andavamo male, il mondo si era messo a girare a velocità incontrollabile e i governi, invece di trovare soluzioni, creavano problemi, tensioni, guerre. Altro che filosofia e visioni ci volevano…

La risposta di San Giovanni mi venne poco dopo, mentre stavo per chiudere il suo Vangelo perrimetterlo nello scaffale. Era aperto alla pagine finale della crocifissione quando Gesù dice: Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre. Poi dice: Ho sete! E alla fine: È compiuto!

All’improvviso mi resi conto che Giovanni non riporta la terribile frase di Gesù che invece riportano Matteo e Marco: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?E continuai il raffronto con Luca, che aggiungealtre tre frasi: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Poi al buon ladrone Gesù dice: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso. E’ la sola volta che viene usato il termine paradiso nei Vangeli. Ed infine Gesù grida a gran voce: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.

Proprio Giovanni, l’unico discepolo che aveva sentito tutto quello che Gesù diceva dalla croce, non riporta la terribile frase. L’invocazione al Padre nel momento supremo cade nel vuoto e Gesù muore sotto gli occhi di Giovanni, di sua madre Maria, della sorella di sua madre, Maria di Cleofe, e di Maria di Magdala. Il Padre non si era mosso in soccorso del figlio. E dall’alto dei cieli stette a guardare tre donne e un giovane piangere disperati. Quell’invocazionenon esaudita era troppo anche per Giovanni che la rimosse dai ricordi, almeno quelli scritti, mentre riporta invece l’affidamento a lui di Maria come sua madre.

15. Dio Padre va dal Cardinale

Prima di lasciare Milano per la Calabria, ero entrato nel Duomo per una specie di saluto alla città che mi avevaaccolto con gran cuore per trenta anni. A sinistra, per terra, vidi la tomba del Cardinal Martini col quale avevo fatto il pellegrinaggio a Gerusalemme. Un vero signore, uomo di grande cultura che però non mi convinceva. Già a Gerusalemme, di fronte al memoriale di Yad Vashem dedicato alle vittime del nazismo, il cardinale aveva dato spiegazioni sulla violenza che Dio permetteva per… rispetto della libertà umana. Un argomento che mi faceva sempre sorridere perché mi ricordava un episodio avvenuto nel Seminario Regionale di Catanzaro durante l’ora di filosofia. Con giovanile impazienza incalzavamo il professore Don Mario Gigante: Se Dio sa che un uomo commette peccato e si danna, perché non interviene,visto che è onnipotente e misericordioso, e lo lascia finire all’inferno?

Il professore spiegava che Dio, come un generale dall’alto di una collina,osservava lo svolgersi della battaglia nella pianura.Il generale poteva dare alle sue truppe gli ordini per vincere loscontro, ma non interveniva per rispetto della libertà umana, econtinuava tranquillamente a fumare la pipa.

Per il Giubileo del 2000 il Cardinal Martini aveva poi diffuso una lettera pastorale dal titolo: Quale bellezzasalverà il mondo? Scriveva:

Il Figlio rivela la sua unità col Padre abbandonandosi aLui e alla sua volontà fino alla morte… il Padre si rivelacome amore nel gesto supremo del sacrificio di Gesù… laBellezza è l’Amore crocifisso…

Riflettei, guardando le vetrate multicolori del Duomo, che il Tempio di Gerusalemme non era distrutto, ma intatto e funzionante nella testa dei sacerdotiche continuavano ad alzare il coltello control’agnello sacrificale. Le fondamenta del Tempio non erano più di granito,ma di sensi di colpa che nulla scalfiva e le colonneabbattute erano sostituite dai contrafforti della teologia.Il Cardinale assicuravache era bella la croce. Io penso invece che è orribile: bello sarebbe togliereGesù e noi stessi dalla croce. Un padre che abbandona il figlio mi fa semplicemente ribrezzo, come lo faceva a mia madre. Poco prima di morire, con voce ansimante, mi recitò i versi che aveva imparato a memoria ascoltandoli dalla sorella Maria Antonietta, in seguito suora salesiana, che all’età di dodici anni recitava la parte dell’Angelo Consolatore durante la rappresentazione della Passione. Era l’angelo che andava a consolare Gesù, che sudava sangue nell’Orto degli Ulivi, quando la volontà di Gesù era entrata in crisi rispetto alla volontà del Padre: Allontana da me questo calice! Ma il Padre non si mosse a pietà, si schierò dalla parte degli ebrei che lo volevano morto, e si limitò a mandargli l’angelo per confortarlo e prepararlo al supplizio come un condannato a morte. L’angelo porgeva un calice a Gesù recitando:

Divin Verbo Umanato,

I tuoi clamori ha tutti intesi il Genitore Eterno.

Perché dunque, Signor, stai così mesto?

Ei vuole che tu con fronte lieta il calice ne bevi!

L’Eterno Padre vuole che il Figlio suo divin soffra la morte

Perché all’uomo del ciel s’apran le porte.

Ecco la croce: devi in essa morire! Sai che il mezzo

Per l’uomo ricomprar l’unico è questo!

Tu che pietoso ne acconsentisti ancor, vanne animoso!

Era una vicenda che mia madre definiva crudele, come in realtà lo era. Il modello identitario tra Padre e Figlio, che Gesù aveva fondato sull’amore incondizionato, si era rotto irrimediabilmente al momento della passione: il Padre mostrò di essere il Dio del Tempio che esigeva vittime innocenti. Giovanni però rimase fedelissimo al modello di Gesù ripetendolo settantasette volte nel Vangelo, ma nell’intimo del suo cuore non lo accettò e chiuse l’Apocalisse con Gesù, Agnello di Dio, non più sgozzato, ma adorato vivo sul trono di Dio. Gesù aveva preso il posto del Padre.

VITA UNIVERSALE

La SuperReligione dell’EROS

Oltre il sesso, la politica e le religioni per salvarel’Umanità e il Pianeta

1. Verso l’India

L’aereo degli Emirates si alzò in volo da Milano Malpensa,sbucò fuori dalla nebbiae un sole accecante entrò dai finestrini. Erano i primi di gennaio 2014 e assieme all’amica Ursula partivo per una lunga visita nel Sud dell’India.Facemmo scalo a Dubai ele hostess si rimisero il grazioso cappellino col velo simbolico prima dell’atterraggio al lussuoso aeroporto.

Visitammo Dubai con i suoi infiniti grattacieli, alberghi, negozi, metrò, ville, strade, porto: tutto nuovo, fiammante,gigantesco. Lo sceicco Mohammed voleva lanciare Dubai come luogo di attrazione mondiale per il turismo di lussospendendo cifre inimmaginabili. Di sviluppi immobiliari mi ero occupato a lungo professionalmente, e perciò cercavo di capire il meccanismo finanziario e organizzativoche aveva prodotto uno sviluppo così spettacolare.

Un giorno, vicino alla Torre degli Arabi chiamata La Vela, mi misi a parlare con giovani indiani che lavoravano come operai nelle costruzioni. Mi informai su come e dove vivevano e quali rapporti intrattenevano con i cittadini di Dubai.Guadagnavano circa cinquecento euro al mese, dormivano in quattro o cinque in una stanza, risparmiavano su tutto e riuscivano anche a mandare soldi ai parenti. Peròcon gli arabi non avevano frequentazione perché questi vivevano lontanodalla cittàin quartieri loro riservati. I lavoratori stranieri, giovani afgani pakistani indiani che costituivano la maggioranza della popolazione, dovevano stare per conto loro.

Quella conversazione mi riportò a una storia che conoscevo bene, quella della Costa Smeralda in Sardegna, dove lavorai dieci anni come direttore marketing per il principe Karim Aga Khan. Quando il principe mi assunse,mi sembrò di toccare il cielo con un dito non solo per l’incarico manageriale prestigioso, ma soprattutto perché quella posizione mi permetteva di vivere in un posto nuovo, libero, senza tutte le complicazioni delle grandi città o le soffocanti costrizioni della Calabria da dove provenivo. Le città in cui ero vissuto: Parigi, Fontainebleau, Hannover, Heidelberg, Monaco di Baviera, Roma, mi piacevano per la libertà e le possibilità che offrivano, ma alla fine era concitatee impersonali. Io ero alla ricerca di un ventre caldo, un posto dove vivere tra gente che ti vuole bene.

Quando lasciai il lavoro della Procter&Gamble di Roma per Porto Cervo, portaicon me i libri che ritenevopiù adatti allanuova avventura: I Dialoghi di Platone, L’Utopia di Moro, La Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone… Nel consegnarmeli il libraio mi disse:

-A dottò, ma perché non pensa a divertirsi invece di stare a leggere ’sti mattoni…

Io mi obbligavo a quella fatica intellettuale peressere preparato a quella rara opportunità di vivere in una comunità che avrei aiutato a crescere.Presto però mi sarei accorto che la Costa Smeralda tutto era meno che la comunità accogliente che sognavo. E l’ostacolo era proprio l’Aga Khan con la sua proibizione di ammettere la popolazione sarda a stare accanto airicchi turisti italiani e stranieri. Era una direttiva del principe: cancelli ai varchi che portavano alle spiagge per non far passare i sardi, ritorno ogni sera ad Olbia o Arzachena dei sardii quali,negli interminabili meeting col principeche si svolgevano in inglese,dai manager di madrelingua inglesevenivanochiamatinatives, indigeni:His Highness, cioè Sua Altezza, titolo con il quale ci rivolgevamo a lui, lasciava correre.

Scrissi allora un rapporto al principe nel quale legavo il successo dello sviluppo al superamento del dissidio con la popolazione locale, fiducioso che avrebbe sanato quel problema, lui che tanta attenzione e amore metteva nel far rispettare i ginepri, le rocce levigate dal vento, le spiagge lambite dalmare di vivo smeraldo. Ma egli non fece nulla, forse condizionato dall’ambiente snob degli aristocratici inglesi tra i quali era cresciuto o dalle sue lontane origini arabe.

Quella mia esperienza di Sardegna mi faceva apparireDubai come una ripetizione dello schema dell’Aga Khan e mi chiedevo come si sarebbe evoluto quell’emirato che cercava di inserirsi nel mondo moderno con uno sforzo sovrumano.Riprendendo l’aereo per l’India, mi augurai che Dubai non finisse come la Costa Smeralda,che rimaneva vuota e spettrale per lunghi mesi e si popolava solo per la breve stagione estiva.Alla fine avevano vinto i massi di granito rosa, indifferenti alla sferzante solitudine e al vento che fischiava dalle Bocche di Bonifacio dove il mare è sempre in tempesta.

Durante il volo mi venne di pensare, forse per contrasto alle sabbie del deserto, alle foreste dell’Amazzonia,dove ero stato per incontrare il mio figlio adottivo Marinaldo, e alla quantità enorme di ossigeno che quelle foreste fornivano ai popoli della Terra. Anche gli arabi respiravano di quell’ossigeno, però loronon davano al Brasile un po’ del petrolio che estraevano dal sottosuoloin contraccambio:se lo facevano pagare.

2. Auroville

Conoscevo già l’India del Nord, ma era la prima volta che mettevo piede nel Sud. Anche Ursula conosceva il Nord India, dove aveva vissuto da giovane per tre anni come insegnante, e fu felice di tornare in quella terra che lei ricordava tutta coperta di polvere rossa. L’agenzia aveva organizzato un tour per noi due con autista a nostra disposizione, Thomas. Fu una scelta fortunata perché Thomas era impeccabile nella guida sulle strade piene di gente, caprette e vacche che attraversavano continuamente. Visitammo in lungo e largoBangalore, Mysore, Kochi, Trivandrum, Madurai, Cuddalore, Mahabalipuram, Pondicherry…A me l’India piaceva perché ogni persona che incontravo, uomo donna bambino, mi guardava negli occhi e sorrideva.

Non ci stancavamo di visitare i templi immensi, pieni di fedeli che si accalcavano tra profumi di incenso, lampade, doni di frutta, suoni di trombe campanee tamburi: ogni volta mi sembrava di assistere alla nascita dell’universo, e forse non mi sbagliavo. In ognuno di quei templi,difatti,nasceva e si rivelava senza sosta l’universo dei desideri posti al fondodi ogni anima.

Il Sud India ha da vari millenni la stessa tradizione religiosa, gli stessi Dei e la stessa lingua: gode di una salutare continuità che nel Nord Indiaè stata interrotta dalla propagazione di buddismo, jainismo, sikh e islam.

A Kochi, la capitale del Kerala, visitammo la bellissima sinagoga adibita a museo. Ursula si informò sugli ebrei del posto, ridotti a una ventina perché la maggior parte di loro si è era spostata altrove. Ursula è nata svizzera da genitori ebrei. La madre, temendo che Hitler potesse invadere la Svizzera, lediedealla nascita i nomi più tradizionali: Ursula Heidi. Ma il suo nome segreto, quello che la madre avrebbe voluto darle secondo la tradizione ebraica, è Rifka, Rebecca. Sua madre aveva una sorella, Alice Humm, che lavorava come istitutrice aWeimar in Germania, e nonvolle dare ascolto agli inviti pressanti della sorella di rientrare in Svizzera.Un giorno fu prelevata dalla Gestapo e scomparvesenza lasciare traccia finendo quasi certamente nella camera a gas di un lager nazista.

Il tour andò avanti per settimane dal mare alle montagne dove si stendevano le belle coltivazioni verdi e basse del tè. Dappertutto si vedevano giovani e meno giovani con motorini, blue jeans e magliette.Gli abiti indiani cominciavano a perdere terreno e si poteva immaginare che i variopinti sari delle donne fra non molto sarebbero scomparsi. Thomas ci lasciò in lacrime ad Auroville dove ci saremmo fermati per un po’, dicevo a Ursula per non allarmarla. La verità è che io avevo puntato su Auroville e volevo rimanervi un mese intero. Di Auroville avevo sentito dire quanto bastava ad accendere la mia fantasia sempre alla ricerca di un luogo ideale. Ormai mi accettavo così perché avevo capito che era più forte di me: io ero nato col bisogno di vivere appieno respirando e trasudando forti emozioni. La vita organizzata non era per me e l’ambiente manageriale mi sembrava popolato da morti che trafficavano sottoterra preparando organigrammi, budget e previsioni di vendita. Io cercavo di evadere da quel cimitero attraverso un cunicolo che mi scavavo di nascosto e a nulla servivano gli ammonimenti di parenti e amici: Quello che tu cerchi non esiste…

Quando ci registrammo all’ufficio dei visitatori di Auroville ci diedero un foglio dove era scritto:

Auroville vuole essere una città universale, dove uomini e donne di tutti i paesi sono in grado di vivere in pace e armonia al sopra di ogni credo, politica e nazionalità. Lo scopo di Auroville è quello di realizzare l’unità umana.

Prendemmo alloggio nella più bella delle case per ospiti, Swagatham Ashram, diretta da Vijaya, alta ed elegante nel sari, che ci assegnò la suite dove aveva soggiornato il Dalai Lama. Ogni mattina con tocco magico lei faceva scorrere polveri colorate dalle sue dita disegnando fiori leggiadri sul pavimento dell’androne.

Auroville prende il nome da Aurobindo, un personaggio straordinario poco conosciuto in Occidente. Lo scrittore inglese Aldous Huxley parlò di Aurobindo come del Platone delle generazioni future, una definizione che a me sembra quanto mai azzeccata. Aurobindo (1872-1950) figlio di un medico bengalese, fu mandato dal padre a studiare in Inghilterra, dove il giovane si distinse per capacità prodigiosa nell’apprendimento delle lingue classiche, greco e latino, e nelle moderne tra cui l’italiano. Si laureò al King ‘s College di Cambridge e, rientrato in India, si rese conto della miseria nella quale versava il suo popolo e iniziò l’opera di proselitismo per portare il paese all’indipendenza dagli inglesi. Fu imprigionato e alla fine si rifugiò a Pondicherry, che era dominio francese, e lì rimase fino alla morte. Egli fu l’iniziatore del movimento indipendentista portato poi a termine da Gandhi. La vastità della sua cultura, la capacità di profonda analisi e l’abilità nella sintesi culturale tra Oriente e Occidente l’hanno reso unico nel panorama filosofico mondiale. Della sua sconfinata produzione letteraria, l’opera più importante rimane Savitri, un poema in inglese aulico di ventiquattromila versi, diecimila in più della Divina Commedia, dalla quale egli prese il termine Cantoper indicare le sei parti che lo compongono. E’ difficile spiegare lo stile della sua poesia: a me sembra un irrefrenabile sviluppo mistico del Veni Sancte Spiritusdella liturgia cattolica della Pentecoste, un desiderio bruciante di luce e amore capace di inondare gli angoli più bui e remoti dell’esistenza. Negli ultimi venti anni di vita egli interruppe tutti i rapporti col mondo esterno e si dedicò unicamente alla scrittura, convinto che la comprensione profonda delle cose era il solo modo per cambiare il mondo. Nessuno più profondamente di Aurobindo ha esplorato la natura della libertà che definì come unanelito eterno dello spirito, essenziale come il respiro: ogni anima necessita di libertà per portare a termine la sua evoluzione. Una sua frase mi compensò largamente delle fatiche fatte per arrivare fin lì:

Il desiderio di essere liberi dimora in un strato profondo del cuore umano e mille argomenti sono impotenti a sradicarlo. Libertà e immortalità sono in noi stessi e attendono di essere scoperti.

3. La Madre

La vita di Aurobindo si legò a quella di Mirra Alfassa, o Mère, la Madre, come era chiamata una incredibile donna francese (1878-1973) che da bambina ebbe esperienze mistiche e da sposata abbandonò tutto per rimanere accanto ad Aurobindo. Il filosofo considerava Mère come un altro se stesso e le affidò la direzione dell’ashram e dei suoi seguaci per proseguire in solitudine i suoi studi.

Mère ideòuna comunità dove la competizione, i soldi, la nazionalità e il credo religioso fossero irrilevanti,e la fondò su un grande territorio arido e abbandonato. Il 28 febbraio 1968 venne posata la prima pietra della città di Auroville nel luogo che Mère aveva visto in sogno vicino a un banian, un gigantesco alberocon radici aeree che scendono dai rami, raggiungono il terreno e si trasformano in altrettanti tronchiche continuano a fare parte dello stesso albero. Il banian di Auroville ha una trentina di grossi tronchi distanti diversi metri l’uno dall’altro e sostengono rami pieni di foglie sempreverdi. Alla cerimonia inaugurale presenziarono l’ONU e 124 nazioni e,con una legge speciale, l’India riconobbeautonomia amministrativaalla comunità.I principi posti da Mère alla sua base sono:

Auroville non appartiene a nessuno, ma a tutta l’umanità. Per vivere ad Auroville bisogna essere servitori volenterosi della Coscienza Divinala cui discesa sulla terra è destinata ad apportare un radicale cambiamento nella vita e nella materia. Auroville vuole essere il ponte tra passato e futuro e sarà un luogo di ricerche materiali e spirituali per la realizzazione vivente dell’Unità Umana.

Il centro geografico e simbolico di Auroville, che nel tempo è stata tutta piantata di alberi, è il Matrimandir, una enorme sfera di metallo a forma di palla da golf coperta da specchi metallici dorati, un capolavoro di architettura moderna. Il termine significa Tempio della Madre, intesa come coscienza evolutiva universale. I giardini attorno sono curatissimi e all’interno si sale per una bella scala a spirale che immette dentro una grandiosaaula sostenuta da colonne di marmo bianco. Una sfera di cristallo posta in altomanda dentro la luce del sole: i visitatori possono sedere in silenzio per una breve meditazione.Attorno al Matrimandir sono disposte le aree destinate a residenza, scuole, fattorie, giardino botanico, ristoranti. In questacittà ideale il denaro non è il padrone edil lavoro è un modo per esprimere se stessi sviluppando le proprie capacità al servizio della comunità che fornisce ogni cosa ai residenti.

Ad Auroville si respira un clima di spontaneità e si possono frequentare concerti di musica degni di essere eseguitinei teatri europei, spettacoli teatrali in inglese di grande raffinatezza, conferenze su filosofia e yoga di alto livello. I residenti di Auroville sono persone colte per metà stranieri: francesi, inglesi, americani, tedeschi e italiani, circa mille, e altri mille indiani. Indubbiamente il peso degli stranieri è maggiore per la loro disponibilità finanziaria. Numerose sono le coppie con bambini, l’alcol è proibito e la cucina è vegetariana. Il fascino di Auroville consiste nella varietà degli ambienti che vanno dalcampagnolo delle fattorie agricole a quello sofisticato dei centri culturali.

Approfittai della presenza di persone colte e di biblioteche per cercare di capire la forte somiglianza culturale che avevo notato tra India e Grecia antica. Il Dio Indra, il padre degli Dei, era raffigurato con una folgore in mano. Mi chiedevo: Giove, padre degli Dei e con folgore in mano veniva forse dall’India?E la numerologia del Dio Shiva con i significati dei vari numeri, non era simile a quella di Pitagora? E lo stesso Pitagora non mangiava del miele al mattino come suggeriva la medicina ayurvedica? E il rito pitagorico di adorare il sole al mattino non era ancora praticato da milioni di indiani che recitavano all’alba l’invocazione Suria namascar? Ma nessuno seppedirmi nulla su una possibile origine comune di quegli usi né trovai testi scritti al riguardo.

L’organizzazione di Auroville è macchinosa perché basata sul consenso di tutti i residenti, e ottenere l’accordo di tutti su tutto a volte richiede anni. Anche problematica è l’amministrazione finanziaria per l’enormità del territorio e il sostegno dato a tutte le iniziative. Auroville è un campionario di tutte le difficoltà, ma è palpabile la volontà di andare avanti per realizzare un sogno, e credo che alla fine vincerà.

Stimolato nello spirito, dimagrito dalla dieta vegetariana, risanato da favolosi massaggi ayurvedici, riprendemmo l’aereo per Milano a marzo, quando già cominciava il caldo dell’implacabile estate indiana.

4. L’uomo perfetto

L’arrivo a Milano col cielo coperto e l’aria irrespirabile mi fece rimpiangere l’India e i suoi cieli. Avevo terminato l’attività lavorativa e non mi mancava il tempo libero che dedicavo alla mia occupazione preferita: cercare un posto bello dove vivere…Ma dove era quel posto? Raggiunta l’età di settanta anni, dovevo decidermi una volta per tutte dopo sedici traslochi in città e nazioni diverse. Mi calmai al pensiero che forse avevo raggiunto quella perfezione lodata dal mistico medievale francese Ugo di San Vittore: Perfetto è l’uomo che si sente estraneo al mondo intero. Ecco, il beato Ugomi aveva capito con otto secoli di anticipo e mi dava pure del perfetto.

Comunque, per non lasciare spazio a dubbi, seguendo l’uso manageriale americano cominciai a scrivere su un foglio i vantaggi, segnati da un più, e gli svantaggi, segnati da un meno, sotto la dicitura Milanoo Calabria, dove pensavo di ritornare. Conoscevo le difficoltà che avrei incontrato in Calabria, una terra che tutti abbandonavano perché ritenuta invivibile, e questo pensiero mi preoccupava non poco. Ricordavo l’analisi della Calabria fatta da una psichiatra milanese che era stata ospite di amici a Soverato e mi parlò di una frattura psichiatricadell’animo calabrese che aveva riportato danni irreparabili. Quella psichiatra aveva toccato con mano il disprezzo dei calabresi verso la propria terra, la perdita della propria identità, la cattiveria derivante da frustrazioni vecchie e nuove: bastava vedere come sporcavano la loro terra…

Tutti quei pensieri mi tenevano in tensione e forse a causa di questa una notte ebbi un sogno che avevo già avuto nel lontano 1967, quando lasciai la Germania e me ne andai a Parigidopo una grave incomprensione con Erika, la mia ragazza di Monaco, come ho raccontato nel mio Ritorno in Calabria.Arrivaia Parigi a fine settembre, presi alloggio in un hotel e corsi al Louvre per vedere la Gioconda. Al centro del salone, riservato all’arte italiana, vidi Monna Lisa che mi sembrò tornare viva. E difatti sistaccava dal dipinto, si ingrandiva, accentuava il suo sorriso da misterioso a benevolo e veniva verso di me abbandonando lo sfondo dei monti sui quali l’aveva ritratta Leonardo. Turbato da quella visione che pensai dovuta alla fatica del viaggio, lasciai il museo,tornai all’hotel,mi addormentai ed ebbi un sogno carico di colori, mentre prima i miei sogni eranostati in bianco e nero.

Ora, prima di raccontare quel sogno, devo spiegare persone e luoghi che apparivano nel sogno.

Tralò è una collina, posta tra il precipizio di Fabellino sul fiume Alaca e il mio paese Sant’Andrea Jonio, che domina il mare e i monti del Golfo di Squillace con una vista mozzafiato. In quella collina c’era una grande proprietà della famiglia di mia nonna materna Maria Caterina Ranieri, donna di leggendaria bellezza. Quando suo marito, nonno Bruno, ritornò dall’America nel 1947, decise di piantare la vigna nella parte alta di Tralò. Il nonno aveva allora settanta anni, io sei, e lavorava con gusto affondando la zappa in quella terra che aveva abbandonato nei lunghi anni passati nell’Ohio. La terra fu dissodata e pochi anni dopo era una festa andare a Tralò per la vendemmia. Poi, alla morte del nonno, Tralò fu di nuovo invasa da vegetazioneridiventata fitta ed impenetrabile.

Nel sogno io avevo circa venticinque anni, l’età dell’arrivo a Parigi, e nonno Bruno era sui settanta, come all’epoca che dissodò il terreno. Tralò però non si trovava più sul MarJonio, ma era una cima di duro granito ricoperta di ghiaccio in un territorio nordico come la Finlandia. Nonno Bruno mi dava un piccone invitandomi a dissodare, io obiettavo che non era possibile, ma lui, la persona più amabile al mondo, aspettava determinato che iniziassi il lavoro. Allora affondavo il piccone nel ghiaccio, incontravo il duro granito e mi sfiancavo nello scavo. Quando ero arrivato ad alcuni metri di profondità, una forza irresistibile mi risucchiava verso il centro della terra. Mi sentivo stritolato e trattenevo il respiro fin quando venivo espulso con forza dalle parti dell’Oceaniasu una piccolissima isola quadrata,inondata di sole con palme frementi al vento su un mare azzurro. La mia gioia allora era incontenibile e il cuore mi scoppiava in petto per la felicità.

Quel sogno, che si ripeté diverse volte a Parigi e che avevo dimenticato, ritornava ora a Milano come per indicarmi una via da seguire. Alla fine ragionai così. Gli altri hanno ragione a dirmi che sono un sognatore, ma io non riesco a cambiarmi:allora tanto valeprovare a costruire il mondo dei miei sogni nei luoghi che già conosco. Il sogno sembrava dirmi che anche il ghiaccio e il duro granito si possono rompere, e così decisi di ritornareal Sud.

Quando lo spedizioniere venne a prelevare i mobili per il trasloco, piegai il foglio dei vantaggi e svantaggie lo infilai sotto la porta di casa per fermarla. Lo spedizioniere mi disse scuotendo la testa: Fra un anno al massimo mi chiederete di riportare i mobili dalla Calabria a Milano…

5. Budda è arrivato a Eboli

In macchina sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria ero in vista di Eboli e ascoltavo alla radio una docente di storia delle religioni che parlava di Budda. La professoressa narrava del concepimento miracolosodi Budda durante un sogno in cui la madre,Maya, vide un elefante bianco a sei zanne entrare in lei dal suo fianco, e poi la nascita di Budda dal fianco della madre nel boschetto di Lumbini. Nell’udire quel nome mi fermi su una piazzola di sosta per ascoltare con calma.

Difatti, quando anni prima visitavo il Nord India e Nepal, desideravo molto vedere Lumbini che si trova in Nepal vicino al confine con l’India. Chiesi alla nostra guida se era possibile visitare Lumbini, ma lui mi spiegò che quel posto era lontano, oltre la catena del Karakorum, mentre noi dovevamo proseguire in aereo per Benares. La mattina di gennaio che dovevamo imbarcarci,una nebbia bloccò l’aeroporto di Benares e il nostro gruppo dovette volare su un piccolo aereo fino a una città vicina a Lumbini per proseguire in pullman fino a Benares. Il giorno dopo camminavo per il viale alberato che porta al sito archeologicodi Lumbini, dove sono stati portati alla luce importanti resti vicini a una piccola grotta adorna di fiorie lampade, il luogo di nascita di Budda.

Intanto la professoressa alla radio continuò spiegando la profezia del Budda Maitreya o dell’Amore. Il Budda aveva predetto che, molti secoli dopo di lui, sarebbe nato in Occidente il Budda Maitreya, che avrebbe unificato l’umanità nell’Amore superando le difficoltà e le divisioni create dalla storia. Nell’udire quella profezia, tutte le fibre del mio essere vibrarono in un fortissimodesiderio di esser io il BuddaMaitreya e dovetti stare fermo per un po’ e calmarmi prima di ripartire.

Ripresi il viaggio e riflettevo che Budda e Gesù, del quale avevo visitato la grotta a Betlemme, alla fine volevano la stessa cosa, cioè la fine dell’angoscia del vivere e del morire. Budda,però, non si curava di Dio, ma della propria vita che voleva liberare dal dolore. Il dolore secondo lui veniva dal desiderio. E bisognava staccarsi dal desiderio per entrare nello stato di quiete, il nirvana.

Al contrario, Gesùponeva la sua identità con Dio alla base di tutto,voleva che i desideri si compissero e le persone non soffrissero per un desiderio incompiuto: sei malato, io ti guarisco; sei affamato, ti do il pane;sei morto, ti faccio risorgere. Però, riflettevo, sia Budda che Gesù coincidevano alla fine nell’amore: Gesù dice che Dio è Amore e Budda che Maitreya è Amore. Per i due uguale era la partenza, diversa la strada percorsa, ma alla fine arrivavano allo stesso traguardo.

6. L’albero del titolo

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli…

E’ l’inizio de I Promessi Sposi di Manzoni, bello e struggente come la natura montana che descrive e che frequentavo nei fine settimana assieme alla coppia di amici milanesi, Dolly ed Ernesto, che avevano un appartamento a Pasturo, il paese di Agnese,la madre di Lucia fidanzata di Renzo. Risalendo da Lecco in macchina, ci inoltravamo verso la Grigna e già alla fine dell’inverno i primi crochi bianchi e profumati sbocciavano nei prati accanto alla neve che si ritirava. Amo Pasturoper la sua valle amena, le acque dei ruscelli alpestri e gli immensi mammelloni di porfidopoggiati contro la montagna. Queigiganti sembrano voler ricordare l’immensa fatica dell’Essere Primigenio che, dopo avere assunto mille forme, finalmente ha trovato pace in quella roccia rossa come il sangue.

Ma c’è un altro motivo che mi lega sentimentalmente a Pasturo: l’albero del titolo. Era giugno del 1993e passeggiavo nelle stradine fuori paesediscutendo del titolo da dare al primo libro che stavo scrivendo.Difatti, arrivato a cinquant’anni, mi ero reso conto che nel mondo degli affari sciupavo la vita perché dovevo sempre adattarmi a situazioni esterne che non portavano mai all’esplorazione dell’interiorità, verso la quale mi sentivo portato, e mi ero messo a scrivere. Avevo capito di non avere un animo nordico, capace di cogliere le opportunità per far soldi. Anzi, quando quelle opportunità mi si presentavano, io ero quasi indignato del loro invito a coglierle: Ma come si permettono di disturbarmi!mi dicevo.

Quel pomeriggio di giugno 1993 camminavamo lungo una stradina fiancheggiata da alberi, quando all’improvviso mi fermai accanto a un tiglio e dissi: Ho il titolo! Ritorno in Calabria! I miei amici approvarono: Bello! Non lo cambiare!

Non lo cambiai, ma quel libro cambiò la mia vita perché durante la sua lunga elaborazione scavò dentro di me un cunicolo attraverso il quale riuscii ad evadere dallacatacombadel business. Sarà stata l’energia misteriosadi quel paesaggio, che già aveva colpito Manzoni, a farmi trovare il titologiusto?

In quel periodo leggevo anche i libri della teologa Uta Ranke-Heinemann, figlia dell’ex Presidente della Repubblica Federale Tedesca, Gustav Heinemann, fortemente polemica con la Chiesa cattolica riguardo alla morale sessuale,un argomento che affrontavo nel mio libro raccontando l’esperienza mia e dei miei genitori. Mi venne spontaneo mandare a Uta una copia del manoscritto -lei conosce bene l’italiano- e con mia sorpresa lei mi rispose inviandomi questa Prefazione che tradussi e adottai.

Era mezzogiorno del 24 Dicembre 1993 e già mi vedevo andare con rassegnazione verso un Natale malinconico, nel ricordo dei miei genitori morti e della gioiosità natalizia ormai scomparsa dell’infanzia. Fu allora che l’ultima posta prima delle feste mi portò dall’Italia un manoscritto: Ritorno in Calabria di Salvatore Mongiardo. Anche un ritorno in un passato, quindi. In quella vigilia, completamente immersa nei miei ricordi di infanzia e gioventù, ho voluto rendermi conto di come l’Autore, a me sconosciuto, aveva vissuto il suo ritorno in Calabria. Più leggevo e più il manoscritto

mi affascinava. Era per me l’incontro con una terra straniera del Sud, con il suo profumo, il suo sole, la sua dolcezza e la sua religiosità. E proprio su quest’ultimo punto era come se qualcuno mi avesse mandato delle immagini in risposta a una domanda che da molto mi teneva impegnata. La domanda è: che effetto opera sulle persone il cristianesimo cattolico? Le rende più illuminate e umane o al contrario le opprime e toglie loro molta umanità e gioia? E mi sembrava, quasi che il libro materializzasse in immagini i miei pensieri, che il cristianesimo forse era una tetra educazione alla disumanità, alla crudeltà. Il cristianesimo come superstizione di una redenzione attraverso il sangue, come se ogni sera, nell’accendere la televisione, il sangue che scorre sui tappeti del nostro soggiorno

da Jugoslavia, guerra del Golfo, Somalia, non dimostrasse il contrario: che sangue ce n’è da non poterne più, ma da ciò non viene nessuna salvezza. Ritorno in Calabria: la giovane, bella madre dell’Autorela quale, travolta dall’angoscia della dannazione eterna da sacerdoti cattolici avidi di sacrifici, nel fiore dei suoi trent’anni si ritira in un’altra stanza per non dormire più con il marito perché la contraccezione porta all’inferno. Vergine-Madre (nato da Maria Vergine) e Carnefice-Padre (crocefisso per la nostra salvezza): chi salva la Calabria, chi salva il mondo da una religione che scivola nell’incubo? Ritorno in Calabria: è più di una semplice via del ritorno. Salvatore Mongiardo è sul punto di abbandonare le pesanti ombre cattoliche per riprendere a modo suo, ancora una volta, la propria strada. A volte dimentichiamo presto uomini e cose, a volte li teniamo a lungo nella mente e nel cuore, a volte addirittura per sempre. Ho incontrato questo libro sulla mia strada in una Notte Santa, e credo che lo conserverò per sempre.

Il mio ritorno a vivere in Calabria era il compimento di un continuoritorno fatto con la mente che navigava nel mare deiricordi della mia infanzia e giovinezza. L’italianista professor Antonio Piromalli, ne La Letteratura Calabrese scrisse a proposito del Ritorno in Calabria:

L’Autore comprende lo sforzo da lui fatto per sfuggire la Calabria, quella del buco nero che aveva spento in lui la gioia di vivere… la Calabria, grande caleidoscopio che muta sempre colore, è sullo sfondo di tutte le azioni e di tutti i pensieri… Il romanzo è molto importante perché assegna alla Calabria una funzione storica nel futuro… la Calabria è madre dell’Italia… dal Sud dovrà muovere il risanamento dalla violenza…. La natura dell’Autore è profondamente religiosa fondata sul concetto di resurrezione e non di morte quale principio che la morte di un innocente è necessaria per la salvezza…

7. La cassa americana

Da bambino avevo visto diverse casse americane nelle case di parenti e amici, alte, scure, rinforzate di borchie. Quelle casse venivano usate dagli emigrati che ritornavano definitivamente dall’America per portare a casa vestiti, scarpe, suppellettili e regali. L’arrivo della cassa americana era un avvenimento per il parentado che si riuniva per l’apertura. A me quasi scoppiò il cuore dalla gioia quando mio nonno Bruno, nel 1947, prese dalla cassa americana un uccellino di latta colorata che muoveva le ali e me lo diede.

Alla fine del 2013, quando chiusi casa a Milano per rientrare in Calabria, non portai con me nessuna cassa perché in Calabria avevo già la mia abitazione. Immaginiamo però che avessi una cassa con le cose importanti di un emigrato,vediamo cosac’era dentro.

La prima cosa è il Ritorno in Calabria, il libro che abbiamo già visto, del 1994. A quello poi seguì nel 2002 un secondo libro, Viaggio a Gerusalemme, diario di un pellegrinaggio in Terra Santa guidato nel 1999 dal Cardinal Martini di Milano. In quel libro affrontavo il problema della violenza che nasce dalla concezione mediorientale del sacro, dottrina che vuole che la salvezza venga dal sangue della vittima innocente, come si dice ancora dell’agnello di Dio e di Cristo. Al contrario, a me la storia dimostrava che il sangue innocente aumentava la violenza, cioè il peccato: non lo lavava né lo cancellava. Insomma, la figura di Cristo, che aborriva sacerdoti, Tempio e sacrifici di sangue,in quel libro emerge diametralmente opposta alla cultura biblica e alla dottrina della Chiesa.

La terza cosa fu ancora un librodel 2006, Sesso e Paradiso, dove riesaminavo i tormenti che l’educazione sessuale cattolica mi aveva creato neimiei sette anni di studio nei seminari della Calabria. Quel libro pose una serie di interrogativi: Ma il sesso cos’è? Frutto proibito, offesa a Dio, colpa, vergogna? Desiderio inestinguibile, eros, perdizione, passione, donazione del proprio corpo, procreazione? Sogno e fantasia o violenza e trasgressione? Il sesso deve essere sublimato o vissuto anche nelle manifestazioni più basse? Dona felicità o crea angoscia?

A tutte quelle domande davo una rispostastrana: Il sesso è forza invincibile, necessaria per scoprire il mistero dell’Esistente e trasformarlo in Dio. Il sesso è la porta dell’immortalità.

La quarta cosa era di nuovo…un piccolo libro nel 2008, Perché la violenza, una breve ricapitolazione delle complesse cause della violenza, alla quale davo molta importanza quale origine dei mali del mondo e dell’infelicità del vivere. Il libro terminava con l’augurio che nascesse un’Accademia Mondiale Antiviolenza e radunasse il meglio dell’intellighenzia mondiale per lo studio e la prevenzione della violenza umana.

Ovviamente la quinta è il libro Cristo ritorna da Crotone del 2013, opera che esplora la radici culturali di Gesù le quali dal mondo italico-pitagorico erano arrivate a lui tramite gli esseni, i pitagorici del mondo ebraico. Difatti, dalla Scuola Pitagorica di Crotone che unìla cultura italica e la greca creando così la Magna Grecia, venivano i cavalli di battaglia di Gesù: la liberazione degli schiavi, la giustizia sociale, i beni in comune, il rifiuto dei sacrificidi sangue. Questolibro corregge la figura di Cristo, deformata dalla cultura sacrificale biblica, e ristabilisce con chiarezza l’origine e la finalità del suo messaggio. Una monaca, mia attenta lettrice, mi scrisse che quel libro rappresenta la vera incarnazione di Cristo, quella avvenutanelle culturedei popoli.

E non c’era altro in fondo alla cassa? Sì, sottoi libric’eral’esperienza di una vita passata come una traversata su una barchetta a vela in un mare agitato. Poi,proprio in fondo, c’era unbue di pane. Sì, un pane a forma di bue, forte e cornuto, con la coda alzata a frustarsi la schiena come fa al momento della riproduzione.

8. Il bue di pane pitagorico

Dopo l’uscita del Ritorno in Calabria, mi ero reso conto che un libro non bastavaa cambiare la realtà, e decisi di riaprire il sissizio, il convivio sul quale re Italo,intorno al 2000 avanti Cristo, aveva fondato l’Italia nelle terre di Calabria compresetra i golfi di Squillace e Lamezia. Il sissizio, parola greca che significa mangiare insieme, era un raduno dove si portava il grano raccolto che si divideva in parti uguali.

Possiamo ragionevolmente immaginare che a uno di quei sissizi partecipò, intorno al 570 avanti Cristo, un ragazzino cheil padreportò con sé a Crotone in un viaggio di affari, come attesta Porfirio, uno dei biografi di Pitagora. Mnesarco, così si chiamava il padre di Pitagora, era un greco dell’isola di Samo, abile intagliatore di pietre per anelli che gli abitanti di Crotone, Sibari e Locri compravano a caro prezzo.

Durante quel primo viaggio a Crotone, Pitagora vide probabilmente un bue panedurante un sissizio. Gli itali, difatti, facevano panidi quella forma per ringraziare l’animale che aveva arato i campi per la semina.

Nelle vite di Pitagora è scritto che egli, quandopoi intorno al 530 avanti Cristo tornò definitivamente a Crotonee fondò la sua scuola, offrì agli Dei un bue di pane per ringraziarli dellascoperta del suo famoso teorema. In realtà con quell’offerta Pitagora riaffermava anche il principio che la violenza entra nell’uomo con l’uccisione degli animali. Difatti diceva: Se non osi uccidere l’animale, mai ucciderai un uomo. La pace è una consuetudine che nasce dal rispetto degli animali.

Dei sissizi antichi, che dall’Italia di allora si erano diffusi in tutto il Mediterraneo,si erano perse le traccefinché non furono riaperti da noi nel 1995. Durante uno dei sissizi moderni, una partecipantemi disse che ricordava la vacchetta di pane che le madri facevano a Badolato col primo grano mietuto e lo davano ai bimbi, una tradizione ormai scomparsa. A giugno del 2014 un mio lettore mi disse che a Spadola, un paese vicino a Serra San Bruno, si faceva ancora la vacchetta di pane per la festa di San Nicolala prima domenica di agosto. Mi precipitai in macchina a Spadola e in chiesa incontrai il parroco, Don Bruno La Rizza, che mi disse con grande rammarico che da quel momento non si poteva più fare…

Difatti, alcuni giorni prima c’era stato a Oppido,alle falde dell’Aspromonte,l’episodio dell’inchino della statua della Madonna davanti alla casa di un capo della ’ndrangheta, e le autorità avevano proibitoche le processioni si fermasserodavanti alle case. Ora, proprio la tradizione di Spadola voleva che alcune famiglie facessero vacchette di pane che davano ai fedeli durante la fermata della statua davanti a casaloro… Era una situazione ingarbugliata che Don Brunorisolse facendo portare le vacchette di pane in chiesa, le benedisse e diede al popolo. Avevamo salvato una tradizione che durava ininterrotta da millenni!

Il primo sissiziomoderno si svolse nel 1995 nella pineta del mio paese, Sant’Andrea Jonio, e fu una grande festa popolare con pifferi, zampogna e tamburi. Poi ci furono i sissizi di Locri, Santa Caterina, Badolato, Isca, Davoli, San Sostene, Soverato, Serra san Bruno, Amantea, Cerva, Savelli, Crotone, Viterbo, Roma e Costa Brava in Spagna. Negli ultimi anni il sissizio si è trasformato da festa popolare in cena rituale filosofica vegetariana.

9. Donne di Calabria

La donna di Calabria, finché non ha figli, è più o meno come le altre. Tutto cambia però quando lei partorisce un figlio che, come vuole la natura, viene separato da lei col taglio del cordone ombelicale. La calabrese non accetterà mai quel taglio e non si rassegnerà ad essere separata dal figlio. E passerà tutta la vita a ricreare quel cordone in ogni circostanza guardando con odio o sufficienza la moglie o il marito che i figli prenderanno.

La madre anglosassone che dà la valigia ai figli di diciotto anni e li manda via di casa per farsi la propria strada, è per la donna calabrese la prova che i nordici sono gente crudele e senza cuore.

Questa diversità antropologica della calabrese, che affonda nella notte dei tempi, mi saltò per caso agli occhiquando ripresi le ricerche sui parti verginali di Maya, la madre di Budda, Iside, la madre di Horus e Maria, la madre di Gesù,che avevano procreato senza congiungimento col maschio. Maya era stata fecondata dall’elefante che le aveva aperto il fianco con sei zanne, Iside poté congiungersi ma non carnalmente con Osiride, del quale non si trovavapiù il fallodopo che il geloso fratello Seth l’aveva fatto a pezzi. Maria, come è scritto nei Vangeli, fu fecondata ad opera dello Spirito Santo.

Una mattina di gennaio 2015che la tramontana copriva di spuma bianca il Golfo di Squillace, capii il messaggio nascosto in tutti e tre i miti:

Il vero potere e compito della donna è destabilizzare la società e questo può avvenire solo quando la donna si congiunge direttamente col Diodimenticando il maschio e leregole da lui imposte.

Solo allora nascono dei figli come Budda, Horus e Gesù che portano un cambiamento radicale. La donna che unendosi col Dio genera grandi cambiamenti, ha avuto una lunga fioritura nella prima Italia con le menadi o baccanti, donne che seguivano il culto di Dioniso o Bacco.All’apparire del Dio, abbandonavano marito e figli, casa e focolare, telaio e conocchia e seguivano Dioniso nei boschi al grido di Evoè, parola che significa evviva. Bevevano vino, entravano in danza orgiastica e si accoppiavano col Dio o con schiavi che così acquistavano la libertà. Quei riti, i Baccanali, si erano diffusi fino a Roma, dove erano diventati licenziosie furono proibiti sotto pena di morte con un Senatoconsulto nel 186 avanti Cristo. In realtà i romani, più che alla morale sessuale, badavano a conservare la schiavitù sulla quale la loro economia era basata, schiavitù che i Baccanali mettevano in discussione.

Lo stesso anelito di liberazione si espande dall’episodio della Vergine Maria, che all’annuncio dell’angelo, prima si dichiara pronta all’ubbidienza: Sono la serva del Signore, cioè una sua schiava.Quando però il figlio di Dio cresce nel suo grembo, lei prende coscienza e annuncia il grande cambiamento nel Magnificat:

Ha deposto i potenti dal trono

Ha esaltato gli umili

Ha riempito di beni i miseri

Ha mandato i ricchi a mani vuote…

Euripide nelle Baccanti, la sua più grande tragedia, descrive le baccantiche uccidono il re di Tebe Penteo, un sovvertimento violento del potere costituito. Invece nella Bibbia, nel libro dei Proverbi, è fatta una descrizione della donna virtuosa in pieno contrasto con le baccanti:

Una donna virtuosa chi la troverà?

Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle.

Il cuore di suo marito confida in lei,

Ed egli non mancherà mai di provviste…

Si procura lana e lino,

E lavora gioiosa con le proprie mani…

Mette la mano alla rocca,

E le sue dita maneggiano il fuso…

La donna lodata dalla Bibbia per la conduzione perfetta della famiglia, si rivela alla fine la garante di un ordine sostanzialmente ingiusto che sfocia fatalmente in guerre che massacrano i figli da lei nati.

10. Dalla Magna Grecia alla Grecia

Chiuso a fare ricerche sul passato, all’inizio della primavera del 2015 fui preso dalla frenesia di andare in Grecia per una lunga vacanza, quasi a fare un bagno in una civiltà che mi ha sempre appassionato. Mi organizzai assieme a due amici di nome Mario e ai primi di maggio percorremmo in macchina la strada statale 106, oggi chiamata strada della morte per gli incidenti; ai tempi antichi invece era percorsa dai filosofi pitagorici che andavano da una colonia all’altra: Crotone, Sibari, Eraclea, Metaponto, Taranto… Quelle terre, chiamateMagna o Grande Grecia per l’altezza della filosofia pitagorica, erano ora in miseria e abbandono. Ci imbarcammo da Brindisi per Igoumenitsa e da lì raggiungemmo Lefkada, la prima delle Isole Ionie, immersa in una luce abbacinante.

Sull’isola mi tornò in mente il mito della poetessa Saffo, checantòcome nessun altra le vibrazioni dell’animo femminile,e che proprio a Lefkada si suicidò per una delusione d’amore. La immaginavo nuda sul promontorio prima di lanciarsi in mare mentre recitava i suoi versi sublimi:

Sono qui

Alle porte del cielo

Vestita di solo desiderio…

Mi sembrò di vedere i gabbiani che l’accompagnavanonel folle volo e l’onda del mare che si aprivaper accoglierla in un letto di freschezza.

Dopo Lefkada, percorremmo Cefalonia epoi tornammo sulla terraferma visitando Missolungi, Lepanto, Delfi, Tebe, Corinto, Patrassoe Olimpia.PoiAtene, Maratona e Rafina, da dove ci imbarcammo per le Cicladi visitando Andro, Tino, Mykonos, Delo, e alla fine arrivammo a Samo.

Volevo visitare Samo per la riscoperta e lo studio di Pitagora, originario di quell’isola, al quale mi ero dedicato a fondo durante la scrittura del mio Cristo ritorna da Crotone. E difatti, le mie ricerche dimostravano senza equivoci che il padre culturale di Cristo non era il pastore mediorientale Abramo, che alzava il pugnale contro il figlio Isacco, ma Pitagora, come ho già accennato. La diffusione rapida del cristianesimo in tutto l’impero di Roma, non fu un evento miracoloso, ma si verificò per la preparazione del terreno fatta dalla filosofia pitagoricanei cinque secoli precedenti Cristo.

Visitare e toccare a Samo i luoghi e il mare frequentati da Pitagora era un must che non potevo lasciarmi sfuggire. Fino ad allora il viaggio in Grecia era stato deludente per l’atmosfera pesante generata dallo scontro politico tra il cancelliere Merkel e il governo greco sulla permanenza nell’euro. I greci erano impauriti, frustrati, scontrosi. Avevano perso anche la loro proverbiale allegria e si notava il degrado consacchi di spazzatura dappertutto. Aspettavano forse che andasse la Merkela portarli via?

Ragionando poi con calma, mi accorsi che la crisi greca non era una sola, ma la somma di varie crisi. Tutti i villaggi delle isole erano praticamente vuoti e si popolavano solo d’estate per riaprire ristoranti e alberghi per turisti. Gli infiniti scheletri di cemento armato di costruzioni non terminate indicavano una crisi immobiliare colossale. Le stesse chiese ortodosse, da sempre baluardo dell’identità greca, erano poco frequentate o chiuse. Addirittura i giovani preferivano l’alfabeto latino a quello greco nell’uso del cellulare. Insomma, Grecia e Magna Grecia erano afflitte dagli stessi problemi: crisi di identità, frustrazione, povertà, emigrazione, rabbia. Poveri noi magnogrecie poveri greci,i quali nei millenni avevano resistito a persiani e turchi, ma ora erano in ginocchio davanti al dio danaro. Per incoraggiarli avevo scritto questa poesia, tradotta in greco, che regalavo negli alberghi e ristoranti:

Alla Grecia

Sempre ti ho amato, o Grecia, e ora penso

All’azzurro assolato del tuo mare

In questi giorni che nordiche brume

Offuscano i tuoi lidi di sogno

Dove nacquero Venere ed Apollo,

Dio dall’arco d’argento.

Feroci artigli di avidi banchieri

Non riusciranno, o Grecia, non temere,

A rubarti la luce del pensiero

Di cui sei la feconda genitrice.

Grecia, divina madre di eroi,

Ai barbari opporremo il nostro petto

E lotteremo con l’arciere Apollo

Che lanciando i suoi strali luminosi

Dissiperà la nordica caligine.

Salvo qualche raro apprezzamento, i greci la leggevano frastornati come il messaggio incomprensibile portato da un alieno. Mi dedicai comunque a una puntuale esplorazione dell’isola di Samo visitando le rovine del Tempio di Hera, del quale resta in piedi una sola colonna, come nel Tempio di Hera Lacinia a Crotone. Quel tempio fu costruito ai tempi di Policrate, il tiranno di Samo che cercò di farsi amico Pitagora associandolo al governo dell’isola. Ma Pitagora non si fece abbindolare, si nascose e poi fuggì verso Crotone. La vicenda di Policrate è tra le più inverosimili del mondo antico ed è riportata da Erodoto nelle Storie. Eccolariassunta.

La fortuna di Policrate era cresciuta molto e le sue spedizioni gli riuscivano felicemente. Aveva cento navi a cinquanta remi e mille tiratori d’arco… Il faraone di Egitto Amasinon ignorava la grande fortuna di Policrate, ma questa gli dava piuttosto dell’inquietudine. E siccome tale prosperità si faceva più grande, scrisse una lettera. “Amasi dice questo a Policrate: Fa piacere che un amico è fortunato, ma i tuoi grandi successi mi procurano turbamento, perché so che la divinità è invidiosa… Infatti, non ho mai sentito dire di alcuno che, essendo in tutto fortunato, non abbia malamente concluso la sua vita… Tu, dammi ascolto e fa’ così: pensa qual è l’oggetto per te più prezioso e la cui perdita ti darà il più grave dolore e gettalo via in modo da farlo scomparire”.

Policrate, si diede a cercare fra i suoi tesori quello per la cui perdita avrebbe sofferto di più: un sigillo,incastonato in un anello d’oro, fatto di smeraldo, opera d’arte di Teodoro di Samo. Deciso a disfarsene, ecco come fece: allestita una nave a cinquanta remi, vi salì egli stesso e diede ordine di portarlo in mare aperto; quando fu ben lontano dalla sua isola, alla vista di tutti i compagni di navigazione, sfilatosi l’anello lo gettò tra le onde. Quattro o cinque giorni dopo, un pescatore prese un pesce grande e bello e pensò che valesse la pena di farne dono a Policrate. Portatoloalle porte della reggia, chiese di essere ammesso alla sua presenza egli disse: “O re, ho pescato questo pesce e ho pensato che è degno di te e te ne faccio dono”. Ma quando i servi tagliarono il pesce, trovarono che nel ventre c’era l’anello di Policrate; come lo videro, lo portarono tutti contenti a Policrate egli spiegarono in che modo era stato trovato. Gli entrò, allora, nell’anima l’idea che quel fatto fosse di origine divina…E difatti gli dei non avevano accettato il sacrificio di Policrate che, indotto con l’inganno dal satrapo persiano Orete a un colloquio a Magnesia, nell’odierna Turchia, fu catturato e crocifisso.

Dopo aver riletta quella storia, cominciai a pensare che Samo era un’isola che favoriva fenomeni di alta energia come quello di Policrate o la nascita di Pitagora, il più grande e ancora oggi il più incompreso dei filosofi antichi. Un giorno, un ufficio turistico ci consigliò di andare a visitare le Grotte di Pitagora. Avevo letto nei testi antichi che Pitagora si nascondeva nelle grotte per sfuggire a Policrate, ma ignoravo che esistessero realmente. Quella era una visita da fare, soprattutto ora che avevo in mente l’apertura della Nuova Scuola Pitagorica a Crotone per rinverdire, dopo più di venti secoli di chiusura, l’Antica Scuola aperta da Pitagora in persona.

Mi organizzai con i due Mario e partimmo il giorno seguente in direzione nordovest per Karlòvasi.

11. Le Grotte di Pitagora

Percorrendo la strada costiera si vedevano rocce dappertutto:Samo era più alberata delle altre isole, ma era sempre una montagna di calcare e sassi. La vita nei tempi antichi non deve essere stata facile, eppure i grecidi allora riuscirono ad accendere negli animi passioni sublimi che nascevano dalla loro fertile mente forse per contrasto al pietrame del territorio. Arrivammo a Karlòvasi e risalimmo verso la montagna di Kerkis che,alta mille e cinquecento metri, si imponevagrigia di granito fino alla baia di Marathòkampos a sud, dove un cartello indicava la strada per le grotte. Pitagora aveva le sue grotte, Budda la sua a Lumbini, Gesù a Betlemme: la grotta era il richiamo inconsiodell’utero materno? Lasciammo la macchina e percorremmo a piedi un sentiero che portava a una interminabile gradinata scavata nella roccia. Ilparapetto era rotto in parte e igradini sbrecciati si affacciavano sul precipizio.

La giornata era piena di sole e la salita faticosa terminò davanti alla chiesetta bizantina,posta difronte alle due grotte che si aprivano come occhiaievuotenella roccia. La grotta di destra era sbarrata da un’inferriata per motivi di sicurezza, ma si poteva entrare in quella di sinistra dove si rifugiava Pitagora.L’entrata non era molto alta e potei toccare un ciuffo di capelvenere che pendeva dalla roccia dell’ingresso. Guardaiverso l’interno vuoto e all’improvviso apparve la figura di un uomo alto circa due metri e mezzo, coperto fino ai piedi da una tunica bianca, sulla testa un copricapo biancocon falde ai lati,immobile con le mani lungo i fianchi. Era senza volto estava ritto su uno scoglio contro il quale si avventava un’onda di mare furiosa. Frammisti all’ondac’era sabbia sollevata dalla tempestae tanti pezzetti di legno sballottolati.Ero cosciente che quell’uomo era un filosofo,che quel filosofo ero io e,se volevo,potevo prendere quei legnettie metterli al sicuro. Ero cosciente anche che quei legnetti erano le anime di donne perse: i due più grandi erano l’anima di mia madre, morta da tempo, e quella di mia sorella Anna, morta a fine 2014. Tutto era avvolto da quiete sovrana e non provavo nessun timore. All’improvviso la visione, durata forse un minuto o poco più, scomparve,e la grotta tornò vuota. Era mezzogiorno del 24 maggio 2015.

12. Le Grotte dell’Apocalisse

Il giorno seguente andai a passeggiare sul molo di Pitagorio, come è chiamata la cittadina sul mare che ai tempi di Pitagora, da cuiin seguito prese il nome, era la capitale dell’isola. Guardavo la moderna statua di bronzo a lui dedicata, ma il verde rame che la copriva e i triangoli che richiamavano il suo teorema non mi ispirarono gran che. Avevo viva in mente la visione della grotta del giorno prima e cominciai a pensare che era meglio imbarcarci e tornare a casa, visto che eravamo in giro da un mese. Andammo all’ufficio del turismo a chiedere informazioni sui traghetti ela bella Demetra, che ci aveva in simpatia, si meravigliò che volessimo partire senza aver visitato le grotte dell’Apocalissea Patmos, erano lì a poche miglia,e poi la casa della Madonnaad Efeso…Così comprammo i biglietti.

La serastavo per addormentarmi quando all’improvviso rividi la figura di Kosmàs, il monaco greco ortodosso del Monte Athos, che mi diceva: Un giorno visiterai le Grotte dell’Apocalisse a Patmos!

Era successo più di dieci anni prima, quando era uscito il mio libro Viaggio a Gerusalemme, che avevo dato da leggere al monaco. Lui allora viveva tra le rovine del vecchio monastero di San Giovanni Teresti a Bivongi, accanto a Stilo. Kosmàs lo lesse e ne parlammo a lungo:lui faceva fatica a capire la mia affermazione che Dio Padre che accetta il sangue del figlio Gesù era pura follia. L’aveva colpito però la spiegazione pitagorica che davo del libro più misterioso di tutti, l’Apocalisse:

La violenza del mondo finirà quando l’Agnello non sarà sgozzato, ma adorato vivo sul trono di Dio.

Quella frase l’aveva fatto riflettere e, quando ci lasciammo, mi raccomandòvivamente di andare a visitare il luogo dove l’Apocalisse era stata scritta: Va’ alle Grotte dell’Apocalisse a Patmos!

Ero poi andato nel 2009 a trovare Kosmàs sul Monte Athos, dove viveva in una casetta nel bosco, dopo che l’avevano allontanato dalla Calabria con inganni e congiure, come ho raccontato nel mio libro Cristo ritorna da Crotone. Lui bramava tornare in Calabria, era la sua terra di elezione, la terra della sua anima. Diceva in continuazione:

La perdita della cultura calabrese è un lusso che il mondo non può permettersi!

Non gli fu concesso di tornare e morìa dicembre 2010,solonella sua casetta,stroncato dal dispiacere.

Da Samo il traghetto ci portò a Patmos e salimmo sulla collina dominata dal grande monastero di San Giovanni, fortificato nel tempo per resistere all’avanzata dei turchi. C’erano molti visitatori del complesso monastico,costruito sopra la grotta nella quale San Giovanni Evangelista, che i greci chiamano il Teologo, vissenel 95 e 96 dopo Cristo. Egli fu deportato lì da Efesodurante la persecuzione dei cristiani scatenata dell’imperatore romano Domiziano. Era già centenario, se è vero che visse centosei anni, e fu rimesso in libertà dopo l’assassinio di Domiziano nel 96. In quella grotta, secondo una tradizione consolidata, egli dettò al discepolo Pròcoro il libro dell’Apocalisse. In un angolo della grotta c’è ancora il giaciglio di roccia sulla quale il santo si coricava, e a lato era scavata una fessura nella parete dove il santo poteva mettere la mano per sostenersi quando si alzava.Approfittaivelocemente della distrazione del monaco guardiano e vi infilaila mia mano.

Il giorno seguente facemmo la breve traversata verso la Turchia per visitare le imponenti rovine di Efeso e la Casa della Madonna. Quella casa, dove lei visse fino alla morte con San Giovanni, è ora trasformata in una cappella con una piccola statua di Maria senza mani:era così quando venne ritrovata dopo la guerra d’indipendenza turca del 1922.Alla fine visitammo anche un monumento tra i più insigni, la Basilica e la Tomba di San Giovanni a Selcuk, vicino a Efeso. Il complesso, gigantesco e bellissimo, dimostra la venerazione sconfinata che i primi cristiani avevano per il Teologo.

La notte seguente il traghetto ci portò da Samo a Kavala, al nord della Grecia sulla terraferma. Da lì,dopo circa trecento chilometri,arrivammo ad Istanbul dalle dimensioni così smisurate chefacciofatica anche a pensarle. Rimanemmo alcuni giorni a visitare Santa Sofia, l’Ippodromo, la Cisterna di Giustiniano…

Visitando il palazzo imperiale di Topkapi, ammirai tutti gli splendori e i tesori, ma quando arrivammo alla parte destinata all’harem del sultano, sentii una tale angoscia serrami il petto che dovetti interrompere la visita e uscire a respirare. Stavo male al pensiero delle centinaia di donne chiuse come uccellini in gabbia, obbligate a passare la vita in attesa di un improbabile incontro col sultano. Mi sembrò una cosa così terribile e innaturale che pregai con tutto il cuore affinché le anime di quelle donne potessero amaree vagare libere nell’immensità dell’universo.

13. Il mistero di San Giovanni

Il rientro in Calabria ai primi di giugno mi sembrò come l’arrivo al paese di bengodi: le colline erano ancora verdi e lungo le strade i banchetti per la vendita di frutta e verdura erano infiniti e fornitissimi. Mi venne immediato il raffronto con gli striminziti banchetti delle isole greche che offrivano qualche pomodoro e melanzane. Il sole cominciava a picchiare forte,il mare si vestiva di turchese e ne approfittavo che recarmi alla casetta sul lungomare di San Sostene, accanto al fiume Alaca, dove da bambino avevo avuto il battesimo della paura scivolando in una pozza d’acqua. Poi c’era la spiaggia dalla sabbia bianca e finissima,miracolosamente scampata alle devastazioni urbanistiche,ancora vergine come nella mia infanzia, con ciuffi di cineraria dalle foglie grigie e fiori giallo oro. Ogni tanto guardavo verso oriente come per ricollegarmi alle isole greche, da dove ero appena tornato, carico di domande irrisolte. Era sempre così nei miei viaggi che, invece di calmarmi, mi creavano nuove domande e maggiori tensioni. Dalla Grecia mi ero portatala visione avuta nella Grotta di Pitagora, un episodio che mi inquietava perché nulla di simile mi era mai successoprima. E c’era poi la vicenda di San Giovanni del quale qualcosa di molto grosso mi sfuggiva. Ne ero sicuro perché sentivocontinuamente come il battere del martello sullo scalpello chescavava, nella Grotta dell’Apocalisse,la buca dove il santo infilava la mano per sostenersi.

Era vicino il solstizio d’estate e camminavo a piedi nudi sulla battigia, mentre la spiaggia bianca sembrava alzarsi verso il cielocome una fontana di luce. Una mattina il bagliore del sole, prossimo ormai alla massima gloria del solstizio, mi inondò e mi sedetti, temendo un’insolazione, all’ombra di un capanno di canne abbandonato. Stetti a guardare lo sciacquio delle onde blu joniche mentre una voce dentro di me mi diceva: Non capisci? Giovanni era il discepolo prediletto di Cristo, l’unico evangelista che narrò gli avvenimenti che aveva visto con i propri occhi, l’unico presente alla crocifissione, il primo a correre alla tomba vuota del maestro.Poi visse per decenni con Maria come sua madre, e chissà quante volte avranno ricordato insieme gli avvenimenti dei quali erano stati spettatori o protagonisti…Certamente avrà saputo della morte di Giacomo, il fratello di Gesù, ucciso dal sommo sacerdote Anano nell’anno 62, quando Maria forse era già in cielo… Un uomo che a cento anni detta un libro come l’Apocalisse doveva avere dentro di se un problema cosìgrosso che né Gesù né la Madonna avevano risolto…

Non sapevo come orientarmi e d’altra parte temevo di essere sul punto di esaltarmi fuori controllo: troppe visioni si affollavano attorno a me nelle grotte, sulla spiaggia, nella mia testa. Delle interpretazioni di altri, soprattutto teologi, avevo imparato a non fidarmi perché erano sempre costruite per dimostrare qualcosa alla quale volevano arrivaregià in partenza, e non tentavano mai vie nuove. D’altra parte sapevo che non avrei trovato pace finché non avessi dipanato quella arruffatissima matassa e così, rincuorato dall’immagine di Giovanni che a cento anni con voce flebile dettava a Pròcoro l’Apocalisse, pensai di sbrigarmela da solo.

14. Logos, Amore, Padre

Decisi di esaminare per l’ennesima volta le opere scritte di Giovanni, e cioè il quarto Vangelo, l’Apocalisse e le sue tre Lettere. Era una rilettura che facevo volentieri perché ritengo Giovanni il sommo scrittore della letteratura mondiale. Ero arrivato a questa conclusione dopo avere letto la pagina dell’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicàr, pagina che leggo sempre in piedi in onore del sommo Giovanni. Chi legge quella pagina capisce perché tutti i grandi della letteratura vengono dopo di lui.

Il Vangelo di Giovanni risente molto del suo sforzo di capire e accettare la filosofia greca, e soprattutto il suo rappresentante più famoso, Eraclito, che era proprio di Efeso, dove Giovanni si era trasferito. La dottrina di Eraclito è quella del Logos, impropriamente tradotto come Verbo, ma che nel greco e nel contesto filosofico significa semplicemente Logica, una legge cioè che governa tutto l’essere e che è molto difficile da scoprire. All’inizio del Vangelo Giovannidice che Dio era il Logos:quindi un’astrazione, non una persona. Alla fine del prologo però Giovanni corregge il tiro dicendo che il Logos si è fatto carne e abitò tra noicome figlio unigenito che viene dal Padre.

Da quel momento la presenza di Dio Padre nel Vangelo diventa schiacciante: l’identità di Cristo col Padre, la sua volontà e la missione affidatagli, tutto si fonda sul Padre. E’ la dottrina della paternità di Dio che Cristo ripete ben settantasette volte nel Vangelo, tre nella seconda Lettera e sette nella prima Lettera, quella nella quale dice: Dio è amore. Anche qui ritorna un’astrazione: l’amore è una passione, una persona può amare, ma non essere l’amore.Sono comunque forzature letterarie usate per esprimere cose molto pregne di significato.Al sommo Giovannisono permesse queste e altre licenze letterarie.

Mi rimaneva ancora da leggere l’Apocalisse, e volli aspettare l’alba perché quel libro crea profonde inquietudini nella notte. Quando però all’alba il sole scacciò le tenebre col suo luminoso scudisciò, mi alzai, rilessi tutta l’Apocalisse e alla fine mi chiesi dove fosse finito Dio Padre: in tutto il libro non era menzionato nemmeno una sola volta!

Cominciavo a rendermi conto che quell’imbroglio era troppo grosso e mi rivolsi a chi l’aveva creato, a San Giovanni, pregandolo davanti all’icona che avevo comprato a Patmos: Ti prego, aprimi la mente e fammi capire se c’è qualcosa che posso fare per questo mondo che è allo sbando…

E già, perché pochi giorni dopo il mio rientro, con stupore e incredulità vidi dai telegiornali gli sbarchi di profughi siriani proprio a Samo, sulle spiagge dove ero appena stato, e bambini annegati portati dalle onde a riva come pescetti morti. Andavamo male, il mondo si era messo a girare a velocità incontrollabile e i governi, invece di trovare soluzioni, creavano problemi, tensioni, guerre. Altro che filosofia e visioni ci volevano…

La risposta di San Giovanni mi venne poco dopo, mentre stavo per chiudere il suo Vangelo perrimetterlo nello scaffale. Era aperto alla pagine finale della crocifissione quando Gesù dice: Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre. Poi dice: Ho sete! E alla fine: È compiuto!

All’improvviso mi resi conto che Giovanni non riporta la terribile frase di Gesù che invece riportano Matteo e Marco: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?E continuai il raffronto con Luca, che aggiungealtre tre frasi: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Poi al buon ladrone Gesù dice: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso. E’ la sola volta che viene usato il termine paradiso nei Vangeli. Ed infine Gesù grida a gran voce: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.

Proprio Giovanni, l’unico discepolo che aveva sentito tutto quello che Gesù diceva dalla croce, non riporta la terribile frase. L’invocazione al Padre nel momento supremo cade nel vuoto e Gesù muore sotto gli occhi di Giovanni, di sua madre Maria, della sorella di sua madre, Maria di Cleofe, e di Maria di Magdala. Il Padre non si era mosso in soccorso del figlio. E dall’alto dei cieli stette a guardare tre donne e un giovane piangere disperati. Quell’invocazionenon esaudita era troppo anche per Giovanni che la rimosse dai ricordi, almeno quelli scritti, mentre riporta invece l’affidamento a lui di Maria come sua madre.

15. Dio Padre va dal Cardinale

Prima di lasciare Milano per la Calabria, ero entrato nel Duomo per una specie di saluto alla città che mi avevaaccolto con gran cuore per trenta anni. A sinistra, per terra, vidi la tomba del Cardinal Martini col quale avevo fatto il pellegrinaggio a Gerusalemme. Un vero signore, uomo di grande cultura che però non mi convinceva. Già a Gerusalemme, di fronte al memoriale di Yad Vashem dedicato alle vittime del nazismo, il cardinale aveva dato spiegazioni sulla violenza che Dio permetteva per… rispetto della libertà umana. Un argomento che mi faceva sempre sorridere perché mi ricordava un episodio avvenuto nel Seminario Regionale di Catanzaro durante l’ora di filosofia. Con giovanile impazienza incalzavamo il professore Don Mario Gigante: Se Dio sa che un uomo commette peccato e si danna, perché non interviene,visto che è onnipotente e misericordioso, e lo lascia finire all’inferno?

Il professore spiegava che Dio, come un generale dall’alto di una collina,osservava lo svolgersi della battaglia nella pianura.Il generale poteva dare alle sue truppe gli ordini per vincere loscontro, ma non interveniva per rispetto della libertà umana, econtinuava tranquillamente a fumare la pipa.

Per il Giubileo del 2000 il Cardinal Martini aveva poi diffuso una lettera pastorale dal titolo: Quale bellezzasalverà il mondo? Scriveva:

Il Figlio rivela la sua unità col Padre abbandonandosi aLui e alla sua volontà fino alla morte… il Padre si rivelacome amore nel gesto supremo del sacrificio di Gesù… laBellezza è l’Amore crocifisso…

Riflettei, guardando le vetrate multicolori del Duomo, che il Tempio di Gerusalemme non era distrutto, ma intatto e funzionante nella testa dei sacerdotiche continuavano ad alzare il coltello control’agnello sacrificale. Le fondamenta del Tempio non erano più di granito,ma di sensi di colpa che nulla scalfiva e le colonneabbattute erano sostituite dai contrafforti della teologia.Il Cardinale assicuravache era bella la croce. Io penso invece che è orribile: bello sarebbe togliereGesù e noi stessi dalla croce. Un padre che abbandona il figlio mi fa semplicemente ribrezzo, come lo faceva a mia madre. Poco prima di morire, con voce ansimante, mi recitò i versi che aveva imparato a memoria ascoltandoli dalla sorella Maria Antonietta, in seguito suora salesiana, che all’età di dodici anni recitava la parte dell’Angelo Consolatore durante la rappresentazione della Passione. Era l’angelo che andava a consolare Gesù, che sudava sangue nell’Orto degli Ulivi, quando la volontà di Gesù era entrata in crisi rispetto alla volontà del Padre: Allontana da me questo calice! Ma il Padre non si mosse a pietà, si schierò dalla parte degli ebrei che lo volevano morto, e si limitò a mandargli l’angelo per confortarlo e prepararlo al supplizio come un condannato a morte. L’angelo porgeva un calice a Gesù recitando:

Divin Verbo Umanato,

I tuoi clamori ha tutti intesi il Genitore Eterno.

Perché dunque, Signor, stai così mesto?

Ei vuole che tu con fronte lieta il calice ne bevi!

L’Eterno Padre vuole che il Figlio suo divin soffra la morte

Perché all’uomo del ciel s’apran le porte.

Ecco la croce: devi in essa morire! Sai che il mezzo

Per l’uomo ricomprar l’unico è questo!

Tu che pietoso ne acconsentisti ancor, vanne animoso!

Era una vicenda che mia madre definiva crudele, come in realtà lo era. Il modello identitario tra Padre e Figlio, che Gesù aveva fondato sull’amore incondizionato, si era rotto irrimediabilmente al momento della passione: il Padre mostrò di essere il Dio del Tempio che esigeva vittime innocenti. Giovanni però rimase fedelissimo al modello di Gesù ripetendolo settantasette volte nel Vangelo, ma nell’intimo del suo cuore non lo accettò e chiuse l’Apocalisse con Gesù, Agnello di Dio, non più sgozzato, ma adorato vivo sul trono di Dio. Gesù aveva preso il posto del Padre.

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