Caro Tito, con la precedente lettera n. 5 hai ben potuto capire come l’anno 1968 fosse stato molto importante e decisivo per me e come la “Gente di Kardàra” (cioè la gente sfruttata, immiserita e praticamente abbandonata a se stessa, in Badolato come in ogni altra parte del mondo) costituisse davvero il metro di misura della mia realtà sociale e della mia intera esistenza. Chiudendo (qualche giorno prima del Natale 1968) la deludente esperienza della scuola salesiana di Soverato, ho utilizzato i quasi 15 giorni di vacanza (che mi separavano dal riprendere l’anno scolastico al Liceo di Locri) per elaborare l’accaduto e stilare le principali determinazioni per il futuro della mia vita, dal momento che era caduta quasi tutta la fiducia nelle istituzioni (chiesa cattolica compresa) ed erano caduti altresì alcuni valori di riferimento (sempre salvo eccezioni). Mi sentivo dentro ad un “grande imbroglio” ed avevo assolutamente bisogno di sbrogliare, venirne a capo, trovare verità, sincerità, autenticità e chiarezza su tante cose. Come avevo già scritto un anno prima in “Gemme di Giovinezza” (1967), sentivo che la mia giovinezza era stata tradita. E sentivo un grande dolore esistenziale, personale e sociale.
Ovviamente, sia per educazione familiare e sia per la critica sociale cui ero stato introdotto dalla professoressa Anna Maria Longo Bova nel 1961-62 in prima media, non ho mai fatto di tutta l’erba un fascio (come si suole dire). Infatti, ero cosciente che non sono le istituzioni in sé e per sé che deludono, bensì poca o molta parte (a seconda dei casi) di coloro che vi appartengono, specialmente dei più responsabili. Le istituzioni, dirò poi nel “Libro-Monumento per i miei Genitori” (2005-2007), sono “neutre” di per sé stesse, però vengono caratterizzate dai comportamenti e dai contenuti nonché dall’efficacia che esse hanno. Nella mia esperienza avuta dall’asilo al liceo, fino a quel fatidico dicembre 1968, le istituzioni escono piuttosto malconce (ancora più malconce di me!), proprio per via di una buona parte dei suoi rappresentanti e responsabili. Tuttavia, un po’ ovunque avevo conosciuto persone delle istituzioni all’altezza del loro compito (alcune davvero magnifiche e talune addirittura titaniche!) ed avevo goduto benefici anche per le leggi a favore di gente povera come me. Briciole, capirò dopo, ma il futuro non ci avrebbe dato nemmeno quelle, anzi ci avrebbe derubato ancora di più, persino nel più profondo. Devastando, come milioni di cavallette.
A parte l’istruzione (che, bene o male, mi è stata data, seppure a più caro prezzo personale e sociale di ciò che in altri Paesi sarebbe stato più normale, utile e auspicabile), ho avuto borse di studio concorsuali che mi hanno aiutato a continuare gli studi e a frequentare, poi, anche l’Università (con il cosiddetto “presalario”), sempre però mantenendo un buon livello di profitto scolastico. Ma tale possibilità era stata scritta nella Costituzione Italiana e immagino che avremmo potuto e dovuto avere di più in qualità e quantità scolastica, specialmente come strutture più adeguate e funzionali, come in altre regioni italiane, già allora. Comunque, pur riconoscendo il valore dei singoli e lo sforzo dello Stato per la mia migliore educazione, a 18 anni abbondantemente compiuti, provavo tedio per tale società così come mi aveva trattato fino ad allora. Non a caso, già a 17 anni, nell’agosto 1967 avevo scritto la significativa poesia intitolata proprio “Tedio”… ma quasi tutte le poesie adolescenziali (sia quelle pubblicate il 13 dicembre 1967 in “Gemme di Giovinezza” e sia quelle rimaste inedite nel cassetto) sono un illuminante documento sociale sulla condizione giovanile non solo calabrese e non soltanto mia personale.
Ed altrettanto illuminante mi sembra possa essere (sia per quel tempo della mia adolescenza e sia a posteriori, per gli avvenimenti che si sono succeduti negli anni) il testo che qui di seguito ti trascrivo … ovvero le “Determinazioni” cui ero giunto nel dicembre 1968 e che, poi nel 1995, ho pubblicato alle pagine 15-19 del libro “Prima del Silenzio” … così ti renderai meglio conto del mio troppo delicato stato d’animo che caratterizzava, in particolare, i miei 18 anni (precisamente erano 18 anni e 10 mesi in quel fatidico dicembre 1968).
DICEMBRE 1968 – DETERMINAZIONI
Non crederò e non avrò fiducia in nessuno: per cercare di capire come stanno veramente le cose della vita e della società mi tocca entrare nella vita e nella società in modo così profondo e sincero, con completa onestà umana ed intellettuale, e in modo tale ch’io possa venire a conoscenza della verità il più possibile.
Di conseguenza, per fare questo, per potermi dedicare a questa conoscenza (che ovviamente reputo primaria e vitale per la mia esistenza) devo mettermi in condizioni tali da ottenere il maggiore e migliore numero di dati o risultati, la cui elaborazione, poi, mi possa dare la verità che cerco. Ad esempio:
1- Devo cercare di non legarmi a cose, situazioni e persone, poiché più libertà avrò e maggiori saranno le possibilità di conoscere tutto e tutti, senza particolare coinvolgimento. Dovrò, quindi, essere il più possibile “equidistante” da tutto e da tutti.
2- Devo cercare, principalmente, di non avere figli (mai dire mai, comunque), poiché questi, inevitabilmente, legano più di una moglie, più dei genitori o dei fratelli o degli amici, più degli stessi ideali. Come “figlio” avrò soltanto ITER (frutto di tutta la mia esistenza), ovvero le opere spirituali, i risultati che riuscirò ad ottenere dalla verità (non meno importanti, penso, dei “figli di carne”).
3- Devo cercare di non lèggere più libri, giornali o limitarne al massimo la lettura che dovrà essere comunque molto critica e messa a confronto con la ricerca che sto compiendo, misurandola con la realtà che vado man mano conoscendo, sperimentando di persona. Vivendo senza soste. Riguardo i libri: continuerò a comprare soltanto quelli che mi potranno servire per i campi d’indagine più specifica; ma li conserverò fino a quando, giunto in età matura, potrò controllarne debitamente i contenuti (specie confrontandoli con ciò che nel frattempo io avrò vissuto o sperimentato). Dovrò stare attento a tutte le culture, specialmente a quelle che finora mi sono state volutamente nascoste. Non devo vedere la televisione, né cinema, né ascoltare la radio se non con lo stesso metodo-atteggiamento supercritico adoperato verso la carta stampata … Devo partecipare al minor numero di conferenze possibile; e, quando esserci sarà inevitabile, dovrò nella mia mente sottoporre gli organizzatori e gli stessi oratori alla stessa analisi critica usata nei confronti dei mass-media. Devo, invece, cercare di ascoltare, di lèggere il più possibile la realtà, il volto, e le azioni delle persone, i fenomeni naturali e sociali. Devo andare sempre dietro le quinte, dietro gli atti e dietro le parole; e possibilmente (sottoponendo tutto ad un’analisi microscopica) penetrare nell’anima delle persone, facendo scaturire da queste i chiaro-scuri e le verità inconfessate e inconfessabili. Devo essere la “cartina di tornasole” di qualunque apparenza e velleità.
DEVO ANDARE LA’ DOVE GLI ALTRI NON SONO MAI STATI.
4- Perché questa ricerca, tutta quest’indagine umana e sociale, tutti questi ardui itinerari non vadano persi, in tutto e in parte, devo prendere più appunti possibile, redigendo quasi quotidianamente resoconti ed annotazioni su ciò che vado conoscendo nella vita esterna; ma, egualmente, con più particolare cura, anche su tutto ciò che riesco a conoscere di me stesso, senza falsi pudori, fino alle più tenue e strenue sfumature. In pratica, sarei veramente felice se potessi lasciare, alla fine di questo lungo viaggio dentro me stesso e il mondo fisico e spirituale, un ITER, un resoconto tanto veritiero quanto minuzioso che forse nessuno finora ha mai fatto. Un “reportage” unico quanto originale, comunque.
5- Devo soprattutto dirigere il mio “obbligo di vita e di conoscenza” verso tutto ciò che possa soddisfare la mia sete di verità, verso tutto ciò che possa rispondere ai tanti “perché” nati nella mia esistenza, fin dalla primissima infanzia. Devo perciò dare un termine orientativo a questa mia intensa ricerca; di modo che ci possa essere il tempo della raccolta e quello dell’elaborazione dei dati. Se avrò salute e “fortuna”, ritengo che da qui ai quaranta anni dovrò dedicarmi alla raccolta dei dati e poi negli anni seguenti alla loro elaborazione. Fisso, quindi, in modo ampio a 45 anni il termine ultimo per chiudere, come prima tappa, l’attività di questa ricerca a tutto campo, a 360 gradi.
6- Ritengo, altresì, che una volta chiuso il periodo più intenso della mia ricerca a 45 anni mi dovrebbero occorrere altri 10-15 anni per elaborare la mole dei dati raccolti. Quindi, diciamo che potrei essere in condizione di trovare le fila del discorso (ed eventualmente anche pubblicare i risultati delle mie esperienze) dai 60 anni in poi.
7- Chiamerò “ITER” tutta questa operazione di conoscenza e di verifica esistenziale e sociale: “iter” come cammino, ricerca, itinerario, percorso, esplorazione, viaggio, marcia, tragitto, tappa, transito, traversata, guado, pellegrinaggio, migrazione, movimento incessante … avventura umana, metodo, esperienza, sperimentazione, conoscenza, desideri, aneliti, gara, slancio vitale, sollecitudine. Utopia operativa: Amore. Armonia. Escatologia …
Dunque, il prossimo appuntamento di ITER, la prossima tappa importante sarà quando avrò compiuto i miei 45 anni: il 4 marzo 1945. Da quella data dovrò “fare silenzio” attorno e dentro me, per cercare di intraprendere la seconda fase, la seconda importante tappa di ITER: L’ELABORAZIONE DEI DATI. Necessariamente, per fare “silenzio” attorno e dentro me, dovrò “chiudere” la saracinesca della mia vita sociale … proprio come se io avessi un negozio, un centro scambi e comunicazione con l’esterno e lo dovessi chiudere ponendo sulla saracinesca abbassata il cartello “CHIUSO PER INVENTARIO” … perché, in fondo, è proprio di questo che si tratta: in inventario di tutte le conoscenze ricercate ed effettuate o non ancora realizzate.
(fine Determinazioni)
ANNO 1969
Martedì 7 gennaio, alla ripresa delle lezioni, dopo le lunghe vacanze natalizie, mi ritrovai al primo banco (fila centrale) della classe seconda (sezione B) del Liceo Classico “Ivo Oliveti” di Locri (riviera jonica della provincia di Reggio Calabria), distante dalla mia Badolato Marina 51 chilometri. Essendo (allora come adesso) la linea ferroviaria jonica ad un solo binario (non elettrificato) occorreva quasi un’ora e mezza per completare tale percorso, sia all’andata che al ritorno. Il treno fermava a tutte le stazioni (ben 10 da Badolato a Locri) e vi erano due o tre incroci da fare con altri treni provenienti dalla parte opposta. Così mi toccava partire alle 06,10 per raggiungere in tempo l’entrata a scuola. Tornavo a casa attorno alle ore 17. Si ripeteva pure in questo caso ciò che ho vissuto a Catanzaro Lido … che, cioè, per frequentare 4 – 5 ore di lezione ne occorrevano quasi altre 6 (tra tempi morti, attese e viaggio in treno), per un totale di 11 ore circa passate lontano da casa. Questa mia considerazione ha avuto poi la sua importanza durante una assai dibattuta assemblea di classe (come racconterò fra poco, più avanti).
La mia classe era mista, come tutte le altre, dove era possibile nelle scuole statali superiori. Le ragazze erano simpatiche e carine e, in maggioranza, più studiose di noi ragazzi. Ed era proprio una ragazza la prima della classe. Gli studenti di quel mio Liceo (ma anche quelli dello Scientifico, del Magistrale e di altri istituti superiori, essendo Locri un polo scolastico sub-provinciale) provenivano dai tanti paesi (montani, collinari e marini) posti (per un raggio di circa 60 chilometri) attorno a tale illustre città sul mare, antica di oltre 2.800 anni (nata ancora prima di Roma). Alcuni di questi alunni “fuori sede” abitavano vicini alla scuola durante l’anno scolastico, in case-affitto o in pensionati.
Uno di questi (originario di Platì, paese aspromontano) era Domenico Barbaro (detto Mimmo come me). Mi capitò come compagno di banco, però soltanto durante la prima settimana di lezioni. In seguito, nel 1973, caso volle che me lo ritrovai a Roma, abitante sulla stessa mia Via dei Campani (nel quartiere popolare San Lorenzo, tra Stazione Termini – Università e Porta Maggiore). Allora egli era già fidanzato con l’attuale moglie, Anna Maria Valente, la quale era originaria del paese molisano di Poggio Sannita (in provincia di Isernia). Entrambi erano studenti in medicina. Altro caso poi volle che io, dopo qualche anno, mi fidanzassi con Bambina Mastronardi che era originaria di Villacanale, un paese distante appena 3 chilometri da Poggio Sannita. Inoltre, il poeta di Gioiosa Jonica, Roberto Fuda, è stato un ulteriore ottimo risultato della mia esperienza liceale locrese: da quel 1969 siamo ancora buoni amici. Adesso è dirigente di settore all’Archivio di Stato di Firenze ed ha al suo attivo tantissime pubblicazioni storiche e letterarie di gran pregio. Si fa onore!
Nonostante fosse una scuola statale e nonostante fosse una “sezione B” (solitamente le sezioni A venivano curate meglio a Locri come in ogni altra scuola della Repubblica), la mia classe dimostrava complessivamente una buona levatura nello studio. Veniva da Messina il professore di Greco il quale pare fosse assistente in quella Università. Comunque era assai bravo professionalmente ed umanamente. I suoi comportamenti erano assai garbati e signorili e lo facevano distinguere dagli altri insegnanti. Ci fece tradurre dal greco l’intero “Simposio” di Platone, cosa che a me piacque moltissimo, pure perché c’era il discorso sull’Eros (infatti il libro da studiare s’intitolava proprio “Eros”). Pure la professoressa di Scienze era assai brava, ma i suoi comportamenti autoritari e bisbetici vanificavano in gran parte la sua opera. Il professore di Italiano era a fine carriera e, quindi, si mostrava un po’ stanco e svogliato, ma (quando s’impennava o si esaltava) era comunque molto bravo. La professoressa di Storia e di Filosofia non era adeguata al compito assegnatole e faceva pesare l’appartenenza all’aristocrazia cittadina.
Degli altri insegnanti non ricordo proprio nulla a distanza di 47 anni (segno che non hanno destato, almeno in me, alcun memorabile interesse né personale né didattico e, quindi, sono passati del tutto inosservati). Tutto sommato, a me dava l’impressione che, per quanto mediocre, quel liceo statale di Locri fosse un po’ meglio del incupìto Liceo privato dei Salesiani di Soverato, anche nell’organizzazione generale. Intanto si respirava più libertà e gaiezza. Poi, essendo misto (cioè, frequentato anche da donne e con docenti donne) mi sembrava umanamente più completo e attraente (più normale). Tra le tante rivendicazioni avanzate nel 1968 da noi studenti ai padri Salesiani, quella di aprire l’istituto a studentesse e insegnanti donne era una delle più importanti … cosa che poi avvenne davvero, per le generazioni successive!… A Locri a metà mattinata avevamo 15 minuti di ricreazione che (trascorsi fuori dall’istituto) potevamo utilizzare non soltanto per mangiare un panino ma soprattutto per parlare con alunni delle altre classi nei giardini sottostanti e, volendo, anche per girare per le vie della città, pure per sbrigare qualche commissione o andare per negozi. Rispetto a Soverato, personalmente e complessivamente mi trovavo meglio a Locri, dove mantenevo i miei risultati scolastici tra i primi della classe. A me è sempre piaciuto studiare e avanzare nuove idee!… Crescere crescere crescere! Specialmente se in modo utile ed esaltante.
Poi avvenne un fatto che mi ha sconvolto tutto o quasi, l’assemblea d’istituto. A livello italiano ed estero (in particolare nei Paesi occidentali o industrializzati), quelli erano gli anni forti della contestazione studentesca e operaia, settori della società che cercavano di avere voce e di farsi sentire dal Governi e dal Potere sotto tutte le forme espresso, a livelli centrali e periferici. Nelle fabbriche e in altri posti di lavoro e di aggregazione, gli operai, tramite i sindacati, avevano ottenuto significativi spazi ed utili momenti di confronto. Ma gli studenti non avevano sindacati che li potessero rappresentare e, quindi, nelle scuole e nelle università avvenivano le prime occupazioni durante le quali si discuteva su come migliorare le cose. Poi venne permesso lo svolgimento di sporadiche assemblee d’istituto, dove potevano esprimersi e confrontarsi tra loro alunni, docenti e dirigenti, pure per il miglior governo della propria scuola o università (almeno queste erano le buone intenzioni, pur in mezzo ad enormi difficoltà d’ogni tipo).
Nella primavera 1969, alla prima assemblea del Liceo di Locri, dopo aver ascoltato tutti, mi permisi di evidenziare la condizione dei fuori-sede, cioè dei tantissimi che come me viaggiavano molte ore al giorno per raggiungere Locri. Gran parte di noi (ci contavamo a centinaia e centinaia) eravamo costretti a perdere tempo prima e dopo le lezioni. Infatti l’arrivo e la partenza dei treni e degli autobus avevano orari che ci costringevano a vagare inoperosi per la cittadina (nei bar, nelle sale giochi, alla stazione ferroviaria, ai giardinetti, ecc.), subendo il freddo e le altre inclemenze atmosferiche. Ma Locri nascondeva anche pericoli di ogni genere, pure quello mafioso con il rischio di trovarsi per caso in mezzo ad una sparatoria: in quei primi cinque mesi del 1969 ci sono stati ben 4 omicidi in pieno centro città (uno davanti ad un negozio di tessuti e tre nel mercato, proprio dietro al liceo). Chiedevo di considerare questo stato di cose e di permettere a chi lo volesse di entrare o restare in classe (o altro luogo adeguato) per poter fare i compiti e studiare, poiché quello era tempo prezioso che non doveva andare perso. Già questa proposta aveva suscitato malumori nella dirigenza. Poi, azzardai dicendo di tenere in considerazione, nella valutazione del profitto, la posizione svantaggiata di tutti questi studenti viaggiatori. Ovviamente era una cosa inammissibile.
Ma, di sèguito, azzardai ancora di più, dicendo che nelle valutazioni (trimestrali e finali) della resa scolastica fossero gli alunni (oltre al preside o a chi per lui) a valutare il grado ed il valore degli insegnanti. Non sono forse gli studenti a beneficiare o a subìre comportamenti e impegno degli insegnanti? … Chi meglio degli studenti poteva esprimersi sul valore espresso dai docenti nell’insegnare?… Sembrava logica una simile riflessione espressa a voce alta. Invece … Apriti cielo!… Tale considerazione-proposta fece grande scandalo (anche presso alcuni studenti) e fu “anatema”!… Ebbi come una scomunica e, alla fine dell’anno, pure immeritatamente, fui nientemeno che uno dei due bocciati a giugno! Sinceramente non sapevo cosa pensare … se la minaccia salesiana avesse mantenuto la promessa o se il mio intervento all’assemblea avesse provocato quella reazione estrema come la bocciatura. Penso ancora che l’una avesse avvalorato l’altra. Comunque sia, ancora una volta, mi procurava problemi e ritorsioni la difesa della “mia Kardàra” (cioè l’attenzione per i più deboli, in questo caso gli studenti in generale e, in particolare, quelli fuori-sede, specialmente i pendolari).
Mi sembra utile evidenziare adesso (gennaio 2016) che, dopo alcuni decenni, ho ritrovato su taluni giornali la proposta (come quella mia) che siano proprio gli alunni a dare un voto ai propri docenti e a farlo pesare adeguatamente nel giudizio fascicolare (trimestrale, annuale di merito o di carriera). Riusciamo a dare il voto ai politici e agli amministratori pubblici, promuovendoli o bocciandoli attraverso le elezioni popolari … però non si riesce ancora a votare il gradimento (anche culturale e professionale) per chi sovrintende alla nostra formazione (un aspetto tra i più strategici che esistano per le persone e per la società)!… E’ risaputo, in alcune grandi democrazie (come Gran Bretagna e Stati Uniti) i professori vengono giudicati secondo parametri di impegno assai severi e possono essere licenziati se non producono abbastanza, in quantità e qualità. Invece qui da noi in Italia (almeno ai miei tempi), in una scuola purtroppo fondamentalmente mediocre (salvo eccezioni), mediocre era altresì l’andazzo generale.
Dieci anni dopo, nel 1979, ho avuto la possibilità di insegnare nelle scuole medie e lì ho capito che la docenza nella scuola non faceva per me. A quest’ora avrei potuto essere già in pensione come docente di ruolo!… ma mi sottrassi per motivi di onestà intellettuale e sociale, che poi dirò. L’educazione dei ragazzi è troppo, troppo importante perché venga affidata a docenti spesso indegni di salire in cattedra!… Ci sarebbe tanto da dire e da considerare a riguardo (ci vorrebbe un altro libro). In questo contesto mi sembra almeno utile e significativo averlo accennato (anche come una delle cause delle mie disavventure scolastiche e della sofferenza avuta a motivo dei comportamenti ma soprattutto per la mediocrità, quando non della penosa insufficienza, di parecchi insegnanti-indegni).
Tra tanto altro, negli anni sessanta (come ho accennato nei precedenti capitoli), la scuola italiana (pubblica e privata) era prevalentemente autoritaria. E “razzista”. Infatti, non pochi insegnanti dichiaravano apertamente la loro contrarietà al fatto che noi figli di operai e di contadini osassimo andare a scuola oltre la quinta elementare o la terza media. Alcuni ce lo dicevano in faccia e in molteplici modi, insultandoci e umiliandoci continuamente. Contro tale violenza psicologica, autoritarismo e “razzismo”, a Catanzaro Lido, a Soverato e a Locri il mio “ribellismo” fece la sua parte, nonostante le feroci ritorsioni. Per quel mio aperto ed appassionato contestare una specie di “segregazione dei ceti umili” (quasi una “apartheid” nostrana, nel contesto dell’odio di classe sociale, allora molto forte) resto ancora adesso fiero ed orgoglioso, quasi felice, quantunque il costo è stato feroce ed altissimo. Ma la mia coscienza è tuttora soddisfatta e lieta, pure perché ho agito sempre con dignità e per la dignità mia e della mia “Kardàra” di turno … ieri come oggi e spero come domani.
Per l’anno 1969 i miei 19 anni non avrebbero niente altro di interessante da segnalare se non il fatto della visita selettiva primaverile effettuata al Distretto Militare di Catanzaro per il servizio di leva. Sono stato contento che i test psico-attitudinali avevano evidenziato la mia natura sensibile e vocazionale umanitaria, dal momento che fui già da allora assegnato ai servizi della Sanità Militare. Sempre nella primavera 1969, purtroppo, un grave incidente accaduto a Peppi Naimo non ha permesso agli Euro Universal di realizzare spettacoli musicali. Riguardo la scuola, non mi andava di perdere un altro anno scolastico, facendo il ripetente nella seconda classe liceale a Locri. Perciò, parlai con i miei familiari e li convinsi a farmi tentare l’Esame di Stato nel mese di luglio 1970, presentando due anni in uno (cioè seconda e terza liceo) e preparandomi “da solo” il programma di tale biennio. Per poter fare ciò, avrei comunque dovuto frequentare il primo trimestre da ripetente (ottobre-dicembre 1969) e poi ritirarmi e presentare domanda di Esami di Stato. Così ho fatto.
ANNO 1970
Per poter studiare in santa pace e non avere distrazioni, i miei familiari mi consigliarono di andare ad abitare nella casa di mia sorella Vittoria a Crotone. Lì, avrei avuto la mattinata (dalle ore 8 alle 13,30) tutta per me e in assoluta solitudine poiché mia sorella, il marito e i figli erano al lavoro o a scuola. Inoltre, potevo dedicare allo studio pure buona parte del pomeriggio, prima di poter fare la mia “ora d’aria” passeggiando nel vicino centro della città. Con grande disciplina mi attenni a questi orari, mi preparai da solo, feci gli esami e, seppure con il minimo punteggio, ottenni il risultato utile per conseguire il Diploma di Maturità Classica e, quindi, la possibilità di iscrivermi all’Università.
Passai il mese di agosto a pensare a quale facoltà universitaria iscrivermi. Se nel 1970 ci fosse stata, quasi sicuramente mi sarei iscritto alla facoltà di giornalismo. Comunque, per poter fare il giornalista bisognava pur saper scrivere bene per cui avrebbe potuto essere adatta anche la facoltà di lettere. In fondo (per il mio grande amore per il genere umano – già da Kardàra – e poi per il giornalismo e per la poesia) fin dalla prima media avevo pensato di fare studi letterari e umanistici. Però, l’inquietudine che mi portavo dentro fin dall’infanzia, i troppi interrogativi personali e sociali che si moltiplicavano a dismisura nella mia mente, il voler capire le cose della vita e del mondo … mi portarono a scegliere la facoltà di Filosofia. Ho fatto questa scelta … spinto dalla mia insaziabile voglia di apprendere, sapere e soprattutto capire capire capire! In tale scelta non ho fatto alcuna valutazione sulle future possibilità occupazionali (sempre piuttosto scarse dopo tale corso di studi). Ho sempre agito come venivo ispirato da anima, cuore e mente … senza badare alle conseguenze concrete. Qualsiasi queste potessero essere. E, in verità, mi sono sempre trovato bene a fare ciò che sentivo, con slancio ed onestà, generosità e un’inconscia lungimiranza. Ho sempre avuto bisogno di sentire convintamente e di amare profondamente ciò che avrei fatto. Senza vero amore e vera passione non so fare proprio niente di niente!… Per agire, anche quotidianamente, ho sempre avuto bisogno pure di un minimo di Armonia! Adesso, a 66 anni, lo posso affermare bene e confermare meglio!… Infatti, difficilmente ci si pente delle scelte fatte con il cuore, l’anima e la mente!… Le mie maggiori difficoltà sociali sono sempre state e continuano ad essere a contatto con cose o persone senza sufficiente amore, senza un minimo generosità sociale, morale e civile. La nostra società è ancora e sempre più mediocre e persino ferocissima in proporzione all’amore che manca!
Oggi (con il “senno del poi”) probabilmente la mia dimensione esistenziale e lavorativa migliore sarebbe stata nel Sindacato per tentare di difendere la tante “Kardàra” che ci sono in Calabria, in Italia e nel mondo. Più concretamente, avrei potuto fare Medicina (come mi consigliavano in tanti) e forse così (sempre con il “senno del poi”) avrei potuto essere più utile a familiari, parenti ed amici (e alla mia Badolato), ma specialmente alle lunghe malattie di mia madre. Una laurea in Medicina mi avrebbe permesso di essere più efficace alla mia gente … ma di medici da ambulatorio e da ospedale la mia gente ne avrebbe avuti sempre pure tanti. No! No, io dovevo tentare di capire il più possibile l’animo umano, l’animo sociale e contribuire a lenire la sofferenze della mia gente e, soprattutto, pervenire alle verità che mi erano state nascoste dai responsabili delle istituzioni e dalla cosiddetta “cultura del tempo” che penalizzava e addolorava me e la mia gente!… Ero troppo pieno di dolore e di inquietudine, di interrogativi e di voglia di darmi da fare per il bene sociale … non avrei potuto scegliere una facoltà diversa da Filosofia. Ancora oggi sono personalmente assai felice della scelta fatta, nonostante sia stata troppo ardua e per me con conseguenze sociali assai spiacevoli!… Cominciavo proprio allora a comprendere che la “Cultura” è la base di tutto e di tutti. Era là che bisognava intervenire! E “Filosofia” mi appariva e forse era (come credo ancora sia) la chiave di tutto, poiché tutto nasce nella mente-pensiero e nel cuore-sentimenti.
Dopo la rottura con i Salesiani e le conseguenti DETERMINAZIONI del dicembre 1968, questa di Filosofia sarebbe stata la seconda SCELTA più importante per il futuro della mia vita. Inoltre, avrei voluto andare a frequentare i corsi di laurea in una grande città (mentre buona parte degli studenti della mia zona andavano all’Università di Messina). Roma poteva fare al caso mio, sia perché era una grande città a livello mondiale (era pur sempre la Capitale d’Italia), sia perché già mi piaceva, sia perché era vicina (o lontana) da Badolato una sola notte di viaggio, sia perché intuivo che era la città che mi avrebbe fatto crescere forse più degli stessi studi universitari. Così, andai a trovare il mio vecchio compagno di banco delle scuole medie, Rosario Mirigliano, il quale proprio a Roma si era iscritto a Filosofia, ma il suo impegno principale era quello di fare studi musicali per entrare al Conservatorio Santa Cecilia. Concordammo di prendere insieme un appartamentino da condividere. Ne trovammo uno di due stanze (più servizi) a Piazzale Tiburtino n. 28 scala B interno 6 che affacciava, con il suo secondo piano, sul muro di cinta del centro storico più antico, sulla vicina Stazione Termini ed era a pochi passi dall’Università e assai prossimo ai mezzi pubblici che portavano anche in centro città. A Piazzale Tiburtino (che era già di per se stesso tutto un mondo) iniziava la famosa Via Tiburtina ed era la porta d’ingresso al popolare quartiere San Lorenzo, zeppo di studenti universitari (quasi tutti di umili origini). Così, l’avventura universitaria poteva iniziare!
(continua)
LETTURE PARALLELE
A questa “Lettera su Badolato n. 6” abbino i tre testi principali di Giovanna Bergantin che “Il Quotidiano del Sud” (ex Il Quotidiano della Calabria) anche come www.ilquotidianoweb.it ha pubblicato (assieme a 7 fotografie e a tre box) nelle due intere pagine 28 e 29 alle ore 18,14 sabato 12 aprile 2014. “Speciale” – UN BORGO A SETTIMANA che può essere letto per intero al seguente indirizzo:
http://www.ilquotidianoweb.it/news/borghi-di-calabria/724558/Badolato–crocevia-di-civilta-e.html
UN BORGO A SETTIMANA
Badolato, crocevia di civiltà e di cultura
Badolato è un vero cross-over di etnie e culture come in un laboratorio di frontiera, sulla Costa degli Angeli, mare color smeraldo e cielo mozzafiato. Il borgo racchiude in sé le più affascinanti e magiche testimonianze del mondo antico che rivive tra i rituali religiosi
di GIOVANNA BERGANTIN
PRIMO TESTO
Dalla statale 106 che attraversa la Marina, nucleo di recente edificazione, si devia verso il lussureggiante lungomare per ammirare Villa Paparo, tipica residenza gentilizia estiva del XIX secolo con cappella e giardino privati. Sul versante opposto del lungomare si può fruire del porticciolo turistico. Ritornati sulla nazionale, si sale al borgo per una strada sinuosa, con in prima vista le spiagge biancheggianti ed il mare dai colori che virano dal verde al blu cobalto. Lungo il percorso, in un contesto paesaggistico attraente, lo sguardo viene attratto dall’imponenza neogotica della ottocentesca villa dei baroni Gallelli, caratterizzata dalle torrette di fortificazione.
Salendo ancora lungo stretti tornanti si giunge a piazza Castello, moderna con ampio parcheggio, costruita sulle rovine del castello normanno. Il borgo si sviluppa su un asse principale – Corso Umberto – attorniato a gironi concentrici dalle viuzze interne. Inoltrandoci sul Corso, lato mare, incontriamo Palazzo Caporale, oggi sede municipale, costruzione del XVII secolo dal portale in pietra finemente scalpellato. Quasi di fronte sorge la chiesa matrice, di impianto normanno, ma rifatta nel XVIII secolo con all’interno l’Altare del Sacramento in marmi policromi e due busti in legno di S. Andrea Avellino, patrono del paese, e di S. Francesco di Paola. Da qui il Corso, sempre più stretto, scende ripidamente dopo aver superato i resti della torre campanaria del XVI secolo.
Camminando, si incontrano, di qua e di là, degli spiazzi e larghetti adornati di piante e fiori e circondati da case finemente restaurate che offrono al visitatore una visione riposante e incantevole. Si passa accanto al seicentesco palazzo Paparo con annessa chiesetta, ormai in stato d’abbandono, ma che testimonia i suoi antichi fasti nel portone con le due colonne in pietra che sorreggono una maestosa loggia. Come d’incanto, giungendo a quello che originariamente era la porta principale di accesso al paese – porta ‘e Japacu – l’angusta veduta delle viuzze si apre su un ampio orizzonte che abbraccia tutta la valle fino al mare, con in primo piano la chiesa dell’Immacolata. L’edificio, a corpo unico di fabbrica, adagiato su uno sperone di roccia sovrastante due torrenti, si caratterizza all’interno per gli stucchi policromi e la cupola a pianta circolare. L’anno di fondazione (1686) e l’anno di restauro (1859) sono visibili su una nicchia del portale di ingresso. Per ritornare a piazza Castello, invece del Corso, si possono percorrere le sue stradine laterali prospicienti il rione Destro con affacci suggestivi su case dirute per effetto di terremoti ed alluvioni e sulla chiesetta della Provvidenza, di impianto seicentesco, ad unica navata. Si festeggia la prima domenica di luglio, dopo una Tredicina religiosa, con una processione. Ripreso il Corso, poco prima di giungere a piazza Castello, sulla destra, merita una visita la chiesa di Santa Caterina di Alessandria d’Egitto, di origine medievale ad unica navata ed abside, con portale in pietra a modanature e con altare e soffitto con rifacimento barocco; conserva all’interno una tavola della Madonna col Bambino del quindicesimo secolo. In prossimità della chiesa si trova Palazzo Gallelli, costruito nel XVII secolo, dalla forma irregolare dovuta all’orografia del terreno. Oggi di proprietà comunale e in fase di restauro, l’edificio ha due portali in granito locale di particolare pregio e tipici archi a sostegno delle terrazze a portico. Attraversata piazza Castello, si riprende, a monte, il Corso passando davanti al settecentesco palazzo Menniti, caratterizzato dal portale principale e dalla grande loggia in materiale lapideo. Infine, nel punto più alto del borgo, sorge la chiesa di San Domenico.
Dedicata alla Madonna del Soccorso, era nel XVII secolo un Monastero gestito dei frati Domenicani. Ricostruita due volte a causa dei terremoti avvenuti nel 1738 e del 1783. A navata unica, presenta un pavimento a larghe lastre in marmo bicromo e dipinti e affreschi di notevole valore artistico. Alla congregazione della chiesa di San Domenico è dato il compito di organizzare “A Cumprunta”, l’incontro di Maria con suo figlio Gesù il giorno della Resurrezione. Terminata la visita al borgo, occorre servirsi dell’auto per visitare altre due interessanti costruzioni religiose poste al di fuori del centro abitato. Il convento di Santa Maria degli Angeli si trova su Petta degli Angeli, altura prospiciente il borgo. Fu costruito a partire dal 1605 per licenza di papa Clemente VIII e dopo varie vicissitudini fu riaperto nel 1736 dai Francescani riformati con ulteriori lavori che si completarono nel 1750 con l’erezione del Campanile a torre. Pare vi abbia dimorato Fra Diego da Careri che vi lasciò una delle sue opere più importanti: una fastosa pala d’altare in legno scolpito ed intagliato che mostra la Madonna degli Angeli tra i SS. Francesco d’Assisi e Ludovico, frutto, secondo una tradizione orale, dell’apparizione della Madonna che gli disse “ scolpiscimi, o Diego”. Di notevole interesse, pure, un crocifisso, il pulpito ed il coro ligneo. Oggi non vi risiedono più i frati, ma è affidato ai ragazzi della “Comunità mondo X”. Proseguendo, a circa tre chilometri dal paese, su un’altura con panorama mozzafiato, si trova il Santuario della Madonna della Sanità. Per informazioni, visite e notizie sul borgo ed i suoi riti ci si può rivolgere a Franco Muià 096785147 – 329 0944067 oppure a Domenico Leuzzi 0967815807 -3408017890 * Sabato 12 Aprile 2014 18:14
SECONDO TESTO
Tanti stranieri nelle case restaurate
UN POPOLO OSPITALE CHE GUARDA AL FUTURO
A soli venti chilometri da Copanello, lungo il tratto di mare della costa jonica che si affaccia sul golfo di Squillace, seguendo la linea della 106 si incontrano, di strada, la marina di Badolato e il borgo antico che offre un meraviglioso colpo d’occhio, nell’abbraccio dall’alto. Staccati dalla frenesia del traffico costiero, nell’abitato antico di origine medievale il paeseggio diventa senza tempo, pronto a stregare il viaggiatore, sedotto dai suoi angoli nascosti. Magica, questa Badolato, platealmente affacciata su una rocca tra due valloni, come la prua di una nave veleggia nella sua bellezza, seduce, incanta, ammalia forestieri e viaggiatori di passaggio per queste colline. Americani, inglesi, danesi, svizzeri e svedesi, sì, soprattutto loro, ammirati da questa natura incantata scelgono oggi di rilssarsi, vivere, scrivere, dipingere e fotografare, circondati da tale bellezza.
E’ così che Domenico Leuzzi, ad esempio, da dieci anni interpreta un’idea portatrice di armonia, ricostruisce vecchie case e offre calore e accoglienza mediterranea per tutto l’anno a tutti quelli che li sognano; qui ha introdotto un autentico revival della originaria architettura con il restauro delle antiche abitazioni intersecate le une tra le altre nella spirale del centro storico. Seguendo il tracciato dei vicoli stretti, tra solidi muri di case in pietra che aprono improvvisamente a piazzette di carattere unite a stradine e gradoni che scendono e salgono si avverte la confluenza unica delle culture poliedriche dei residenti, preludio di una straordinaria ricchezza di diversità. Ecco allora che capita, percorrendo rasente i vicoli del borgo, di incrociare Luisa, genovese, residente lì per scelta e piacere, che guidandoci tra scalette e “vinelle” ci invita ad assaporare l’ospitalità davanti ad un caffè nero bollente. Il quadro si integra con l’incontro nella sede del Centro di accoglienza per i rifugiati che, ormai da 18 anni, ospita profughi provenienti dai paesi afro-asiatici ed offre temporaneamente assistenza, alloggio e possibilità di un futuro migliore. Cristina e Maria Vittoria, l’una operatrice, l’altra assistente sociale, fanno il break con un panino intente a seguire le storie di vita di tanti afgani, ma anche pakistani, etiopi ed eritrei, bengalesi e somali. Per condividere quel senso di spiritualità e meditazione che vibra intorno, da S. Domenico prendiamo la via del venerdì santo risalendo Petta degli Angeli e guidati da Salvatore, giovani di Mondo X, seguiamo i ritmi nuovi del convento. Tutt’intorno, quiete e silenzio del centro e periferie, testimoniano il passato fatto di storia millenaria, ma essenzialmente di fede profonda.
TERZO TESTO – La storia
Centinaia di figuranti per la Passione
LE RAPPRESENTAZIONI RELIGIOSE RIVIVONO NEL SILENZIO DEL BORGO
Le Confraternite custodi di riti e tradizioni
In un’atmosfera che mixa stranieri e famiglie locali, la realtà si trasforma, ma la solenne religiosità e i molteplici rituali che scandiscono i ritmi dell’anno. Per ricostruire in una visione più reale possibile la sacra rappresentazione che ripete con riti di solida tradizione locale gli eventi della Settimana Santa abbiamo sfogliato le pagine dell’opera fotografica di Franco Muià, il quale scandendo i giorni degli eventi, la descrive per immagini accompagnata da testi guida di Pasquale Rudi. E’ lo stesso Franco Muià, a raccontare. Genovese di origine calabrese. Nel suo studio sul corso principale si dedica a scattare foto artistiche, anche dal deltaplano, soprattutto paesaggi del posto per farne poi quadri, tele, guide fotografiche che ritraggono oggetti e personaggi di quel borgo che l’ha accolto. “Sono le feste di Pasqua che riuniscono. Tutti ritornano in Paese e partecipano guidati dalla memoria della propria identità culturale – spiega Franco Muià, circondato dalle sue produzioni fotografiche -. Sono Rappresentazioni molto partecipate e vive di fede oltre che di tradizioni ricchi di particolari e dense di significato”.
I culti dei primi giorni della settimana riguardano le visite, i cortei devozionali al Sacramento e la funzione della lavanda dei piedi nella chiesa matrice del ss. Salvatore con i rappresentanti delle tre confraternite, quindi il mesto silenzio della lunga processione del venerdì che da S. Domenico svolta per Petta degli Angeli salendo fino al vecchio convento francescano. Le rappresentazioni sacre con le processioni più spettacolari sono quelle del sabato e della domenica che coinvolgono molti attori e figuranti. Tutto il tempo di sabato prelude alla “cumprunta”, cioè l’incontro della domenica di Pasqua di due cortei, uno recante Cristo Risorto e l’altro l’Addolorate. Si dà avita ad una singolare staffetta tra lo stendardo del Rosario che preannuncia il Cristo Risorto e la Madre, la quale, dapprima dubbiosa, quando vede inchinarsi d’innanzi a sé S. Giovanni, raffigurato nello stendardo di S. Caterina, non ha più esitazioni e si lancia in una straordinaria corsa verso il figlio risorto. (fine)
TRE BOX: 1 – Feste e fiere: i riti della Pasqua, 2 – Cosa comprare: formaggi e buon vino, 3- L’incontro: il fotografo genovese.
SETTE FOTO: 1- Panorama del borgo, visto dal mare, 2- Foto della “Pigghyata” a Piazza Castello, 3 – L’incontro pasquale tra Madonna e Cristo Risorto, 4 – Chiesa dell’Immacolata vista dal Bastione, 5 – Particolare della “Varetta”, 6- Tetti dalla Jusuterra, 7 – Franco Muià.
Caro Tito,
voglio ringraziare Giovanna Bergantin per il gioiello descrittivo che ha fatto di Badolato borgo e “Il Quotidiano del Sud” che l’ha reso possibile ed evidenziato nel suo “Speciale “ di sabato 12 aprile 2014. Inoltre voglio ringraziare gli Autori delle foto, in particolare Fausto Gallucci e Simona Scoppa di Badolato.
Attenzione! – Il testo e le foto presenti in questa Lettera n. 6 su Badolato sono stati presi dal web. Gli Autori che non desiderano vedere apparire in tale contesto le loro opere, possono segnalarlo a info@costajonicaweb.it e le rimuoveremo immediatamente.
Grazie per la gentile attenzione. Cordialità,
Domenico Lanciano
(Agnone del Molise, giovedì 28 gennaio 2016 ore 00,01)
111 anni fa a Badolato nasceva mio padre!
Dedico questo capitolo a tutti coloro i quali avrebbero meritato di più!