statua del cavatore - CatanzaroCaro Tito, quasi 21 anni fa, nel giugno 1995, ho pubblicato il libro “Prima del Silenzio” dedicando 25 delle 168 pagine agli “Eroi del quotidiano” … cioè alle persone oneste che si sudano la vita più degli altri, facendo spesso molto più del loro dovere. Le persone oneste vanno sempre non soltanto ricordate ed apprezzate, con riconoscenza e gratitudine, ma anche emulate ed esaltate … specialmente in tempi in cui è davvero tanto difficile essere persone e cittadini onesti. E qui voglio evidenziare e celebrare gli onesti attraverso il Cavatore, una statua che (situata nel centro della città di Catanzaro) mi ricorda tanto da vicino mio padre e i suoi colleghi operai e contadini e che è uno dei principali e più attinenti simboli del più vero e autentico popolo calabrese.

 

Qualche anno fa, poi, “Il Quotidiano del Molise” mi ha pubblicato in due intere pagine, a puntate, una lunga riflessione intitolata “Cronache di Ladronia” che contemplava pure il rubare i beni immateriali (ad esempio “il sonno” o “il silenzio” o “la dignità” ecc. ecc.) e altri aspetti che esulavano dal rubare denaro o altri beni materiali. Morale della favola: bisognerebbe essere attenti ed onesti pure in situazioni in cui la nostra sensibilità viene messa a dura prova.

 

si discute per capire - fumetto SnoopyEd era da tempo che avrei voluto scrivere un “Elogio degli onesti”. Così (come sono solito fare, quando mi viene un’idea) ho fatto una ricerca su “Google” e, già nelle prime dieci pagine, non ho trovato alcun riferimento con la dizione “Elogio degli onesti”. Probabilmente avrò pure ricercato male (si sa, a volte, basta cambiare una vocale o una consonante o una parola e non si ottiene quanto desiderato). Tuttavia, ho trovato numerosi altri elogi (positivi e negativi) ma non l’elogio degli onesti. Gli unici due riferimenti più attinenti sono stati quello di Maria Romana De Gasperi (figlia del grande statista Alcide 1881 – 1954 il quale il 24 marzo 1952 con la sua presenza ha fatto nascere ufficialmente e operativamente Badolato Marina e altri paesi del litorale jonico calabrese) intitolato “Elogio della politica di una volta, se nasceva dall’onestà” e quello di Italo Carvino (famoso scrittore italiano 1923-1985, nella foto in bianco e nero) intitolato “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” (scritto e pubblicato nel 1980) e che mi sembra utile e illuminante riportare qui di sèguito. Meglio, infatti, dare la parola e la precedenza a chi sa, molto meglio di noi, esprimere il nostro stesso pensiero!…

 

Spero, così, di avere dato almeno un segno di onore e di rispetto (oltre che di riconoscenza e di gratitudine) a coloro che veramente si sforzano di essere onesti e lo sono quotidianamente e come etica di Vita, nonostante le troppe difficoltà (spesso autentici martirii). E’ grazie ai veramente onesti se la società e il mondo sta evitando la catastrofe, pur non potendo evitare il massacro fisico e morale (di cui frequentemente sono proprio gli onesti le prime vittime).

 

Italo Calvino scrittoreHo trovato, sempre su Google, il riferimento al “Manuale di sopravvivenza ad uso degli onesti” evidenziato il 02 maggio 2012 dal sito www.corrieredelsud.it di Crotone. Ho però notato che, tutto sommato (anche ricercando in modo diverso sui motori di ricerca internet) si parla troppo poco di onestà … forse troppo poco poiché troppo poco la si pratica e, probabilmente, chi è veramente onesto è intimidito per essere minoranza emarginata e persino discriminata. C’è il cosiddetto “silenzio degli onesti” pure come “maggioranza silenziosa”. Ma, con “il coraggio degli onesti”, non sarebbe meglio che si facciano sentire?!…

 

Grazie, ancora e sempre, per la gentile attenzione! Cordialità,

 

Domenico Lanciano

(Agnone del Molise, sabato 12 marzo 2016 ore 16,04)

 

 

 

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

Italo Calvino

“C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti.

Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale.

Ma a guardar bene, il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era, non solo lecita, ma benemerita. Il paese aveva, nello stesso tempo, anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto, non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse); la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente, in nome del bene comune, i disavanzi delle attività che, sempre in nome del bene comune, s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto, la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali, per legittimare i loro compiti istituzionali, dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che, coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta), s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico, senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini, cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso.

Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?

No, la loro consolazione era pensare che, così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è ”.

 

 

Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Pubblicato anche da

la Repubblica, 15 marzo 1980

 

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