Avvolto in un vasto mantellaccio scuro, con un voluminoso blocco di carta da schizzi sottobraccio, un uomo percorre a grandi passi decisi le viuzze strette, pavesate di biancheria stesa ad asciugare, invase da nugoli di ragazzini sudici e di donne che si chiamano da una finestra all’altra.

I suoi passi risuonano secchi sul selciato. Intorno, alte case bianche abbacinate dal sole, un cielo azzurro e leggero, sfioccato di nubi.E’ diretto verso la “Piazza della Giudeica”, una delle piazze più popolari di Messina dove sa di trovare un ricco e ben assortito “materiale umano” che gli servirà come spunto e soggetto per il mestiere che esercita: quello di pittore.Grossi topi si rincorrono sfrontatamente lungo i muri; ovunque lo sgradevole odore di muffa, di stantìo, di povertà.Giunto nella piazza, il pittore si siede su alcune antiche pietre e comincia a tracciare schizzi di popolani con mano ferma e sicura. Gli fanno cerchio numerosi bambini incuriositi.

Nulla sfugge alla sua acuta osservazione e già i fogli si riempiono di figure plebee, di vecchi dimessi e nerboruti dai sudici piedoni nudi messi in bell’evidenza, di straccioni e mendicanti, di donne volgari e di sporchi ragazzini che poi diventeranno i santi, le Madonne e gli angeli che popoleranno i suoi quadri.Dalla “Porta della Giudeica” che nel fondo della piazza si apre sui resti della cinta muraria normanna, entra ed esce una gran moltitudine di persone, alcune dirette ai “Macelli della Giudeica” per acquistare carne o allo “Spedal grande” per visitare i congiunti ammalati.Un popolano saluta cerimoniosamente il pittore che nel ricambiare solleva appena il mento, quel tanto che basta, però, per farcelo immediatamente riconoscere: è Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio”, l’artista più violento, arrogante, attaccabrighe che si sia mai visto a Messina.

E’ l’aprile del 1609.Caravaggio, che a Roma aveva ucciso Ranuccio Tomassoni da Terni durante il gioco della pallacorda, si trova a Messina dopo essere fuggito da Malta nelle cui carceri era stato rinchiuso per aver insultato e poi ferito un nobile maltese. Qui si trova bene ed è tenuto da tutti in grande considerazione.Adesso sta lavorando a una grande tela, la “Resurrezione di Lazzaro”, per conto della chiesa di S. Pietro e Paolo dei Pisani o dei Crociferi.E’ mezzogiorno.L’artista chiude il suo blocco di schizzi e si avvia verso la piazza del “Tarsanà” dove si trova l’osteria in cui abitualmente va a mangiare. Gli avventori se lo vedono comparire davanti con quel suo sorriso di arrogante provocazione sulle labbra, l’inseparabile spadone da lanzichenecco, il cappellaccio piumato che ombreggia il volto pallido per la malaria e la vita disordinata che conduce e subito si mettono istintivamente in posizione di difesa. Quasi tutti conoscono la triste fama di questo pittore che offende, aggredisce gli avversari malmenandoli di santa ragione e ferendoli senza pensarci due volte. Violento sì, arrogante sì, attaccabrighe sì, ma nessuno può mettere in dubbio che, nonostante tutto, quel gaglioffo è un grande pittore e sa dipingere molto bene, osservano gli avventori mentre lo guardano mangiare solitario al suo tavolo, in un angolo dove si annida l’ombra.

Ed infatti, il quadro “Resurrezione di Lazzaro” è un autentico capolavoro, forse uno dei più grandi e commoventi fra tutti quelli dipinti dall’artista: la figura del Cristo è a sinistra, in primo piano, mentre sullo sfondo un gruppo di sei popolani ed apostoli meravigliati osservano la scena che si presenta ai loro occhi. Due uomini vigorosi sostengono la pietra del sepolcro ed un terzo tiene nelle sue braccia Lazzaro che sta per risorgere sotto l’imperiosa parola del Maestro.L’attimo fuggente, sospeso fra la vita e la morte, è fermato per sempre dal muto dialogo delle mani di Cristo e di Lazzaro: quella del Maestro protesa verso di lui, nell’atto di infondergli la vita, quella di Lazzaro che indica un teschio ghignante per terra come per dire al Salvatore: perché mi risvegli?

Che devo fare? Non vedi che appartengo alla morte? Michelangelo da Caravaggio avrebbe potuto veramente chiudere i suoi giorni a Messina senza più andare ramingo in cerca di pane e ricovero: i molti lavori commissionatigli e qui pagati profumatamente (per il quadro dell’”Adorazione dei Pastori”, nella chiesa dei Cappuccini, il Senato gli aveva corrisposto la straordinaria cifra di mille scudi) e il gran numero di estimatori che si era creato costituivano la più solida garanzia per il futuro. Ma “egli non era uomo da saper tenere la lingua e le mani a posto”; viene a diverbio con un locale maestro di scuola e in una violenta rissa lo ferisce gravemente alla testa. Non c’è niente da fare, il pittore “dal cervello stravolto” deve seguire fino in fondo l’assurdo destino che incombe su di lui come una maledizione: fuggire. Lascia Messina.

E’ il 1610 e Caravaggio si appresta a tornare a Roma dove il Papa ha deciso di accordargli la grazia per il suo omicidio. A Porto Ercole, dove il pittore ha intenzione di imbarcarsi, per un disguido viene fermato dagli sbirri e perde la goletta che è già salpata con tutti i suoi beni e si intravede in lontananza, ormai irraggiungibile. Michelangelo è sconvolto.In preda alla febbre malarica corre forsennato lungo il litorale sotto il cielo rovente di luglio. Invoca disperatamente una barca che lo porti a Roma, urla, piange, maledice…Poi cade bocconi sulla sabbia.

I colori spariscono dai suoi occhi, il cielo si oscura, il mare lo assorda col suo rumore di onde, il silenzio, il freddo…E’ mezzogiorno, ma per lui la notte è già calata. Scritto da Nino Principato

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